Una ragazzina di bianco vestita soffia svogliatamente le undici candeline poste sulla sua torta di compleanno: i nonni, la mamma, sorelline e fratellini la circondano sorridenti, non riuscendo a sciogliere un'atmosfera d'imbarazzo e di crisi imminente. Raffreddata da un'inquadratura frontale, l'adolescente si avvicina alla finestra e, dopo aver piegato le labbra in un cenno di sorriso, si butta giù, precipitando sul lindo vialetto d'ingresso. La sua sagoma e il rivolo di sangue completano perfettamente la geometria del quadro.

Non ci interessa riprendere l'incipit del criticato, ma alla fine premiato, Miss Violence di Alexandros Avranos per aprire l'annosa (ma vale la pena di dirlo, mai inutile) discussione sull'etica dello sguardo, bensì perché questo lungometraggio greco, presentato alla 70esima Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, ha offerto lo spunto per una riflessione sulla trasformazione del “cinema da festival”. Tra amici, critici e registi, si è parlato di una certa “misoginia” che emergeva dalla selezione della Mostra, ma non sarebbe giusto tirare conclusioni affrettate a questo proposito, né particolarmente interessante, quanto invece tentare un'esplorazione su come le nuove pratiche di produzione stiano influendo sui tipi di storie da raccontare, sugli stili predominanti, sulle diverse tendenze che alla resa dei conti si mostrano spaventosamente simili.

Per ripercorrere questa trasformazione, che inizia negli anni Ottanta ma che solo nel nuovo millennio diventa capillare e globale, bisogna innanzitutto evidenziare come sia radicalmente cambiata la struttura dei festival cinematografici: non più punto d'incontro tra i diversi mercati, ma sempre di più luogo in cui prendono vita i progetti cinematografici, se non addirittura vivaio per giovani talenti. Proprio lo sviluppo alla produzione e gli atelier, di cui compie un'accurata disamina Enrico Vannucci nel successivo articolo dello speciale, sono ormai luoghi nevralgici nel percorso produttivo del film d'autore. Da anni lo si nota al Festival di Cannes, che ospita buona parte dei film che ha sostenuto già in fase di sviluppo (e che pur venendo da tutto il mondo trovano nel prolifico sistema cinema francese una coproduzione decisiva), anche se l'azione spartiacque è stata compiuta ben prima e con esiti pionieristici da Rotterdam. Oggi ogni festival che si rispetti sembra volersi dotare non più del proprio “mercato”, ma bensì del proprio film fund o del proprio atelier di sviluppo. La tendenza è arrivata anche in Italia attraverso il progetto internazionale del Torino Film Lab e ora, con lo spostamento di Alberto Barbera da Torino a Venezia, è sbarcata perfino alla Mostra, che dall'anno scorso si è dotata del Biennale College, vera e propria fucina (sovvenzionata da Gucci) per i giovani che hanno, però, l'obbligo di presentare il proprio film al festival, in una sezione forse un po' troppo ghettizzata.

Come tutti i cambiamenti produttivi di rilievo, anche le trafile dei film funds impongono nuove regole e hanno la tendenza a prediligere quello che Maria-Paz Peirano, nella sua analisi sul cinema cileno proposto (d)ai festival, chiama “un cosmopolitismo che è allo stesso tempo un localismo nazionale”. Per questo chi si trova ad affrontare un simile percorso deve avere gli strumenti per saper “collezionare” fondi senza cadere nella trappola, purtroppo sempre più evidente, di una globalizzazione culturale travestita da sostegno per il cinema d'autore. Il coordinamento di diversi fondi, legati al mondo festivaliero, ha dato vita a un film come Tabu di Miguel Gomes e ha permesso la produzione di un'opera come Le quattro volte di Michelangelo Frammartino, costruendo attorno a questi film una rete di festival, critici, spazi d'arte e di comunicazione che hanno reso possibile oltre alla realizzazione, la presentazione e la diffusione di opere dall'approccio originale e innovativo. Ed è proprio la rete creata attorno alle produzioni, a rappresentare uno degli aspetti più interessanti della nuova pratica produttiva del cinema d'autore.

Non è semplice, per il precario mondo della produzione italiana, avvicinarsi a questo tipo di pratiche, che, come spieghiamo nell'articolo seguente, spesso prevedono quote del Paese d'origine, ma alcuni produttori si stanno sforzando di intessere rapporti e strutture che creino un cinema  italiano in grado di misurarsi, sia come forze produttive sia come qualità, all'Europa. Ne sono esempio, nel bene o nel male, i film che nell'ultimo anno hanno fatto il giro del mondo. L'intervallo di Leonardo Di Costanzo (prodotto da Tempesta Film di Carlo Cresto-Dina), autore che racconta con lucida sensibilità quanto la Camorra si insinui nella vita delle persone a Napoli, e Salvo di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza (sviluppato dal Torino Film Lab), che segue l'impossibile storia d'amore tra una cieca e un malavitoso in una Sicilia desertificata. Se il secondo appare come un'operazione studiata a tavolino, sorprendente, casomai, nel corrispondere per estetiche e temi allo stereotipo italiano (i cui cliché narrativi sono stati elaborati nello sviluppo e “laureati” alla Semaine de la critique di Cannes), il primo sfugge ad ogni semplice scappatoia, sviluppando una storia che seppur servendosi di ingredienti graditi al palato del cinema da festival (protagonisti adolescenti, il meridione, la malavita, etc), sa trovare bene la propria verità nella distanza tra chi racconta la storia e il teatro in cui ha luogo.

Dall'altra parte, il cinema italiano è conosciuto all'estero attraverso i film di giovani autori che fino ad oggi hanno lavorato al di fuori di qualsiasi contesto europeo, trovando un modello personale e unico di sviluppo e realizzazione dei propri progetti, accolti e premiati solo successivamente dai festival internazionali. Potremmo definirle “opere uniche”, nel senso che sono state realizzate seguendo avventurose e diverse vie di finanziamento, e per questo non possono rientrare in un sistema; anche se questi cineasti, spesso produttori di se stessi o con esili strutture alle spalle, sembrano star elaborando nuove pratiche – più o meno reiterabili – che si sposano con i tempi e con le necessità del proprio lavoro. E proprio dall'equilibrio tra pensiero e azione forse sta nascendo una nuova rappresentazione dell'Italia, grazie al lavoro di una generazione di filmmaker che ha saputo cogliere con tempestività le trasformazioni in atto.

Di fronte a film come Materia oscura di Martina Parenti e Massimo D'Anolfi, Piccola Patria di Alessandro Rossetto, TIR di Alberto Fasulo (per restare a film degli ultimi mesi), alla difficoltà nell'incontrare il pubblico delle sale, viene da domandarsi se il vero compito dei festival non sia soprattutto quello di costruire un nuovo pubblico, piuttosto che impacchettare produzioni cinematografiche (sfida che, comunque, è andata sempre più perdendosi nella costruzione della cattedrale dell'evento unico, sorretto da anteprime assolute e ospiti d'onore). Un pubblico che non sia platea inerte di fronte al capolavoro annunciato, ma spettatore attivo, capace di promuovere nuova cultura nelle strade d'Italia e d'Europa.