La superficie del Saint Laurent di Bertrand Bonello non è quella della moda, quantomeno di quella oggi corrente, dominante. All’apparenza forse sì. Dopo un’ora o poco più si è sempre in ammirazione per la conduzione formale del film, ma si affaccia il dubbio che la forma sia dominante, vale a dire che il film sia incappato nella trappola delle sibille dell’estetizzazione (il grande male di tutta l’arte contemporanea) e diventi in tal modo il riflesso dello sfondo – la fatuità e la vacuità del mondo della moda – dell’oggetto ritratto, offuscando quest'ultimo: la personalità inquieta, folle, ma genialmente creativa di Yves Saint Laurent.

Scivolava tutto addosso a YSL? Ce lo si può legittimamente chiedere.

Vi è una sequenza chiave: quando a destra dello schermo scorrono le collezioni disegnate dal grande couturier nel suo periodo più intenso, cioè dal 1966 al 1976 (periodo su cui gran parte del film è imperniato), e a sinistra dello schermo si susseguono invece le immagini di repertorio, del Vietnam, del ’68, delle dimissioni di De Gaulle, dell’annuncio della sua morte. È una breve sequenza realizzata in split-screen con due flussi giustapposti: Quello della fiction che ricostruisce la realtà e quello reale dell’immagini di repertorio. Un incontro che non riesce a diventar scontro. Perché YSL non è (di) in questo mondo e al tempo stesso ci è dentro in pieno.

La sequenza non è solo documentaristica: è perfida, innanzitutto, perché rivela tra le righe l’assenza d’interrogazione sul mondo contemporaneo nell’arte di YSL; profonda, in secondo luogo, perché "giocherellando" mette in evidenza, per contrasto, la forza della creazione artistica malgrado le brutalità del mondo; e rispettosa, infine, perché, come il film rivelerà, questo è il limite ma anche la grande forza del lavoro di creazione di YSL. L’intero film è infatti pervaso, tra l'esplicito e il sottotraccia, da un'interrogazione sull’arte e la sua decadenza, e la decadenza dell’Occidente stesso: un sentimento struggente, un pervasivo languore nostalgico che porta con sé la consapevolezza dell’autodistruzione di una cultura e di un mondo, e di conseguenza di un desiderio di autodistruzione del protagonista. Warhol, ad esempio, che dedicò una serie di ritratti a YSL, pare meno artista del couturier: il film, sottilmente, fa apparire il grande ideologo della pop art un re di quell’estetizzazione di cui dicevamo. Bel paradosso, visto che Warhol, stando al film, diceva a YSL di considerarlo come l’ultimo rappresentante di un’arte ormai morta.

Un profumo viscontiano coabita dunque con un profumo proustiano: le due cose non essendo certo indissociabili poiché il regista di La Caduta degli Dei e del Gattopardo, da un certo momento in poi abbandonerà quel neorealismo di cui era stato maestro per lasciar posto alla rappresentazione di un languore verso un mondo in dissoluzione, quello delle aristocrazie europee, facendolo coincidere, in una serie di film grandiosi, nella dissoluzione di un’intera civiltà. Forse chiudendosi in una bolla protettiva, ma restituendoci anche una rappresentazione potente e precisa di questa decadenza come nessun altro ha fatto al cinema.

Ne è paradigmatico che YSL nella sua vecchiaia sia interpretato da Helmut Berger, l’attore feticcio del Visconti degli ultimi anni, da Ludwig a Gruppo di famiglia in un interno. O ancora la presenza di Dominique Sanda, nella parte della madre di Saint Laurent, attrice che ha lavorato con tanti grandi registi italiani, e con Visconti proprio in Gruppo di famiglia in un interno. Siamo di fronte ad un unico movimento: la Sanda, rivelata da Robert Bresson, era all’origine una mannequin, così come lo straordinario Gaspard Ulliel, che interpreta Saint Laurent, è un attore e mannequin. La stessa struttura narrativa, totalmente destrutturata nella temporalità, è il riflesso di un crollo, di una confusione sulle gerarchie del “bello”, vale a dire la confusione di Saint Laurent tra vita reale e vita mentale – le due cose, ancora una volta, essendo indissociabili. Del resto, la struttura narrativa piena di digressioni, è una non-struttura in qualche modo proustiana (si sa, del resto, che Marcel Proust figurava tra gli scrittori preferiti da YSL).

Tutto torna, quindi: il chiudersi a riccio al mondo esterno del padre de La Recherche, degustando madeleines evocanti reminiscenze sulle meravigliose spiagge della Normandia mentre tutt’intorno vi è la carneficina più totale, è anche quello di YSL. Ma non bisogna essere ideologici: Saint Laurent ha connotato la sua epoca con il bello, ricercando costantemente la raffinatezza, come Bonello riesce a farci capire con vera finezza, entrando nei meandri della costruzione artigianale mediante un lavoro d’équipe. Arte di équipe, dunque, come a teatro. E come al cinema.