C’era una volta un tagliabambù, Okina, che trova nell’interno cavo di una pianta di bambù, una piccola creatura, che alleverà con la moglie e chiamerà Kaguyahime. Diverrà una meravigliosa ragazza con uno stuolo di pretendenti di alto lignaggio, ma si rivelerà una creatura lunare di passaggio transitorio sulla terra, esiliata per una qualche colpa commessa. E una delegazione celeste arriverà a riportarla sulla Luna. Adattamento dell’antico monogatari (“storia raccontata”, il genere letterario classico giapponese) Taketori monogatari (Storia di un tagliabambù) risalente all’anno 909, di autore anonimo.

Il grande regista d’animazione Takahata Isao – sodale storico di Miyazaki con cui ha fondato lo Studio Ghibli, nonché autore di quello che è considerato il più grande anime mai realizzato, Una tomba delle lucciole – torna in sala dopo una pausa di ben quattordici anni. Risale al 1999 infatti il suo lavoro precedente My Neighbors the Yamadas. In comune con quell’opera, The Tale of The Princess Kaguya ha l’estetica bidimensionale, dai colori acquerellati, le immagini sospese nel bianco, i personaggi stilizzati non naturalistici. Si tratta in realtà di una convergenza di approcci a materiali di partenza diversi. Nel caso del film del 1999 l’obiettivo era rendere la dimensione della striscia a fumetti da cui era tratto. Nel caso invece di questa ultima opera, il riferimento figurativo sono le immagini degli emakimono, i rotoli illustrati dell’antico Giappone, con parti dipinte e parti di narrativa scritta, che si dipanavano tendendoli tra la mano sinistra a srotolare e la destra ad arrotolare con un effetto di scorrimento delle immagini. Uno di questi rotoli viene proprio esibito nel film, con effetto enunciativo, in una scena di corte. L’effetto dipinto riprende tutta un’iconografia nipponica classica, realizzando una sorta di pinacoteca di estetismi della tradizione giapponese, kimono, ciliegi in fiore, raffinate dame di corte, feste tradizionali con giocolieri e saltimbanchi, immagini della natura, fiori, uccelli, decorativismi vari. Il film funziona con un senso dell’illustrazione ma senza cadere in tempi sospesi, in effetti tableau vivant, anche perché, come si è detto, il riferimento pittorico non è rappresentato da quadri statici, ma da immagini che, con lo srotolamento e con lo scorrimento in orizzontale del punto di vista di chi guarda e legge l’opera, contenevano già il senso del movimento. È una percezione che nell’arte classica giapponese appartiene anche ai paraventi e che torna nella storia del cinema nipponico con i famosi plan-rouleau, come definiti da Noël Burch, le lunghe carrellate laterali di Mizoguchi che, come ricordano i collaboratori del Maestro che li conduceva nei musei ad analizzare gli antichi rotoli dipinti, intendevano proprio riprodurre nel cinema quel senso di scorrimento e di movimento dello sguardo in orizzontale. Anche Takahata realizza coerentemente i suoi plan-rouleau, già all’inizio del film nella foresta di bambù per arrivare al tagliabambù. Pare evidente il debito dell’esponente dello Studio Ghibli, a un altro genio dell’animazione giapponese Kawamoto Kikachiro, autore di opere con pupazzi in stop motion, di cui sembra aver assimilato il senso di classicismo giapponese e di cui, con questa opera, si pone come ideale continuatore. Non deve essere estranea quindi, alla genesi di The Tale of The Princess Kaguya, la collaborazione tra i due autori d’animazione avvenuta nel 2003 quando Takahata è stato chiamato a realizzare un segmento del film collettivo Winter Days coordinato da Kawamoto.

Il lungometraggio precedente di Takahata, My Neighbors the Yamadas, sembra essere agli antipodi di The Tale of The Princess Kaguya, pur condividendone la forma estetica. Tratta infatti di una famiglia contemporanea giapponese. Ma la storia di Kaguyahime è talmente radicata nel folclore da fare parte ancora oggi dell’immaginario minimo dell’uomo comune giapponese. La storia di una vecchia coppia sterile che raccoglie un bambino in circostanze magiche, lo alleva e ne riceve in cambio gioia e ricchezza, è un archetipo comune ad altre fiabe, come quella di Momotaro trovato in una pesca, Urikohime in un melone, Uguisuhime in un uovo di usignolo. In My Neighbors the Yamadas Takahata rappresentava la nascita dei due figli proprio come Momotaro e, in un anticipo del film successivo, Kaguyahime, mostrando così come certi miti ancora compenetrino la vita quotidiana. Il passaggio dall’uno all’altro film appare così più naturale, ma con The Tale of The Princess Kaguya il regista torna, con tutta una serie di riferimenti, al proprio cinema, e a quello dello Studio Ghibli, e alla propria vita. L’oscillazione, e il contrasto, tra la vita di montagna e quella in città, la nostalgia dei monti, il senso arcadico e antimodernista tipici dello studio, sono le stesse che permeavano uno dei primi grandi successi del regista con lo Studio Ghibli, la serie Heidi realizzata ormai quarant’anni fa. Curiosamente anche un altro anime recente, Mai Mai Miracle di Katabuchi Sunao, richiama situazioni del romanzo di Johanna Spyri, collocandole in un’età ancestrale. Ma Takahata, con un’apertura kurosawiana, arriva anche a enucleare temi dostoevskijani nell’antico poema, il delitto, la punizione, l’esilio sulla terra, il riscatto.

Con The Tale of The Princess Kaguya Takahata conduce lo spettatore in un lungo viaggio, un viaggio dalla nascita alla morte, un viaggio attraverso la natura, la pittura e il sacro, laddove quest’ultimo è rappresentato dallo shintoismo, la religione nativa giapponese.