Classe 1960, natali a Suresnes, Haute-de-Seine, all'anagrafe Alexandre Oscar Dupont, in arte, per una questione d'anagrammi, è Leos Carax. A 23 anni, quando esordisce nel lungometraggio, il suo curriculum cinematografico prevede: due cortometraggi, La fille rêvée (1977) e Strangulation Blues (1980) + la frequentazione della redazione dei Cahiers du Cinéma, in veste di critico = premesse promettenti, comme il faut, vedi alla voce esperienze da nouvelle vague.
Boy Meets Girl (1984) è un'acclamata folgorazione. E una dichiarazione d'intenti: ridurre la trama all'archetipo, per produrre un cinema oltre i canoni (letterari) della narrazione. Così, dell'onda degli anni 60, e soprattutto di Godard, Carax coglie l'assoluta contemporaneità del frammento: la forma rappresentativa capace di restituire l'obnubilarsi dei nessi causa/effetto, il vivere frantumato della postmodernità, la schizofrenia dell'esperienza, la molteplicità caotica dei punti di vista, il proliferare dei palcoscenici in cui recitare. L'identità è una crisi, il soggetto dell'enunciazione stenta a definirsi, a manifestarsi: Boy Meets Girl s'apre su una voce inclassificabile («Siamo qui, ancora soli. Tutto è così lento, così pesante, così triste. Presto sarò vecchio e tutto finirà, finalmente»), prosegue seguendo un personaggio femminile, in auto, mentre una voce canta alla radio la gainsbourghiana Je suis venu te dire (que je m'en vais), come se la donna alla guida necessitasse di una sfacciata colonna sonora per telefonare all'uomo che sta abbandonando, prima di gettare nella Senna i suoi quadri, chiedere a un giovane, immobile, che ore sono, mentre il rumore del traffico nasconde la risposta, e infine perdere un foulard a scacchi mentre il volto del suo amato compare in assolvenza e si dissolve, uscendo per sempre dall'inquadratura. Il giovane, catatonico, si smuove, raccoglie il foulard. Una voce lo chiama: «Thomas». E' Alex. Che lo raggiunge, s'incammina con lui lungo la Senna, narra di una donna perduta, del tradimento del suo migliore amico. E lo aggredisce: è Thomas, il suo miglior amico; è Thomas la passione di Florence. Alex sottrae il foulard a scacchi (come a scacchi è la sua giacca) stretto tra le mani del nemico inerme, se ne appropria come fosse un feticcio riconquistato, lo eleva a (malinteso) unico ricordo del suo amore. «Questo è quello che mi resta di Florence», dirà. Fugge.
Non c'è trasparenza, in questa prima scena, solo opacità: il protagonista non ci si presenta, lo si incontra, l'evento dinamico, il trauma personale, è prima vissuto per procura (dalla donna in auto) e cantato dalla radio, poi narrato come un conte alienato, astratto dal contesto pragmatico (come se Thomas non fosse Thomas), infine reificato in quel brandello di stoffa che rima con la stoffa vestita da Alex. Una scena, una precisa idea di mondo, una precisa idea di cinema. Leos parla di sé, Alex è il suo nome proprio, condivide con il personaggio professione ed età. Denis Lavant, l'inteprete, il suo Doinel, è suo coetaneo, gli assomiglia. Boy Meets Girl è espressione autobiografica di un disorientamento, affascinante bignami retorico dell'insofferenza intima, in cui A-lex viola la legge, si comporta come fosse nelle inquadrature di un giovane Godard, s'esprime nel racconto mediato di sé, burattino animato da un romanticismo che è in primis amore per un ideale, astrazione: l'idea di sé come personaggio esistenzialista, autisticamente chiuso come in un Garrel, la scelta di Mireille (dal latino mirare) come oggetto scopico del proprio desiderio. Alex è regista di se stesso. E prima regista, che se stesso. Zigzag tra stili e periodi cinematografici, lacerti di esperienza in b/n, code di nero a punteggiare gli stacchi, a chiudere per poi riaprire gli occhi, l'amore per il muto costantemente (persino esplicitamente) dichiarato, il noir come vago genere di riferimento, soprattutto nel determinismo letale, soprattutto nel fiume mélo che scorre, carsico e ironico, sotto le inquadrature.
Con Rosso sangue (1986) le istanze di Boy Meets Girl si fanno radicali. L'abbandono del nucleo sociale non è passivo, la rottura subita dal primo Alex si commuta in quella attiva di un secondo Alex (Lavant, ovviamente), che sceglie di rinunciare all'amore di Lise e, infine/finalmente orfano per la morte del padre, fuggire: s'aggrega a una banda di criminali, s'innamora di Anna (Binoche), la donna del boss, partecipa a un furto affinché possa permettersi di cambiare vita. Intanto il virus S.T.B.O., urlata metafora, uccide chi si dà all'amore senza amore. Cinema di marginalità cercate e poi di incontri, quello di Carax è intollerante alla giusta misura, alla forma istituzionale (cinematografica e sociale): mette in scena il perenne movimento. Alex corre. Sempre. È la fuga l'unica risposta plausibile alle domande della vita. Il suo corpo non è mai pago, si muove disarmonico «tra la grazia e l'epilessia» (Daney), la sua bocca è immobile mentre la sua voce dice, sfida i carrelli di Carax a stare al passo delle sue gambe, ventriloquo incarna la separazione tra video e audio: è, letteralmente, bande à part. Sceglie l'amore impossibile, ché la fame è vita, ché il desiderio sado e masochistico dello sguardo (Anna, nome palindromo, che si specchia e dunque rispecchia) è l'osceno desiderio che muove lui e questo cinema febbrile, che cita nel titolo e in chiusura Rimbaud. Sullo sfondo sci-fi apocalittico, un noir decostruito parente del divertito calambour Detective (1985) di Godard; Rosso sangue è un puzzle di particolari, esasperazione di quella frammentazione che separava tra loro le scene di Boy Meets Girls e che qui agisce internamente: il montaggio articola dettagli strettissimi, i corpi valgono quanto gli oggetti, la virtualità astratta che ne consegue è sintomo di un mondo alienato e abitato da feticci (la recitazione si adegua, robotica e teatrale), è la fotografia di identità disperse in rivoli che cercano di cristallizzarsi in ruoli (cinematografici, fumettistici: la banda di Marc assomiglia alla banda del classico Rififi (1955), le bande dessinée sono costantemente mimate, imitate, Hugo Pratt partecipa in un cameo). Alex segue il flusso del mondo, lo porta al parossismo, fa della frantumazione il proprio modus vivendi, dell'attentato all'identità stabile l'urgenza lirica del proprio Io: perciò sceglie di sfuggire alle etichette, ai nessi logici della prosa e, poeticamente, corre, si dimena, seppur vanamente. Anna, nel finale, comprende il suo inspiegabile sacrificio: quella corsa scomposta è un atto d'amore, una filosofia ereditata di vita.
Ha ragione chi associa Rosso sangue al cinéma du look, quello di Beneix (Diva, 1981, Betty Blue, 1986) e Besson (Subway, 1985, Le Grand Bleu, 1988), quello della superficie e dell'intertestualità, quello dell'immagine pura che rigetta la profondità, ma non chi considera la tendenza in senso pregiudizialmente deteriore: nell'eterogeneità dei registi si assiste a un'estetica che filtra e assorbe l'immaginario del periodo, che comprende lo spirito della società dei consumi (come la nouvelle vague e la pop art) e con esso si confronta, ricalcandolo e facendosi coscienza critica con intensità differente. Carax in maniera apocalittica, meno integrata, infine profondamente politica: Gli amanti del Pont-Neuf (1991), capitolo finale della trilogia dedicata a un sempre nuovo Alex, rappresenta uno scarto. Sotto la definizione di “I cancelli del cielo francese”, oltre le vicende produttive di un cinema coppoliano, autoriale e spettacolare, megalomane e sfortunato, c'è un'opera unica del cinema d'Oltralpe degli anni 90.
Il boy è Alex (Lavant), clochard privo di storia, la girl è Michèle (Binoche), che: – sta per diventare cieca – ama dipingere – è stata abbandonata da un uomo – è figlia di un ambasciatore – ora vive in strada. I due si amano, forse, sopravvivono nella miseria, lei viene raggiunta dalla possibilità di riacquistare la vista e di venire reintegrata in società, lo abbandona, si ritrovano. Il simbolismo dissoluto di Carax ne fa una faccenda immediatamente, superficialmente, frontalmente politica: i marginali vivono sul ponte simbolo di Parigi, in ricostruzione, l'anno è il 1989, 200 anni dopo la Rivoluzione Francese. Il dramma vive, crudo e romantico, mentre la Francia democratica s'autocelebra in nome dei diritti umani e della civiltà moderna. Alex è un escluso, lo si ribadisce visivamente, concettualmente, fisicamente, violentemente (quando l'Ordine lo riconosce, lo tortura), Michèle si esclude. Nel loro amore oltre ogni contratto sociale possono urlare, finalmente, la loro identità. Sulla spiaggia gridano i propri nomi, mentre l'occhio di Carax, l'occhio accusato di fare del consumismo estetico ed etico, li guarda da lontano, lontano da ogni feticismo.
La politicità di Gli amanti del Pont-Neuf è nello sguardo: se Rosso sangue s'apriva al desiderio femminile (quello di Lise, le cui dinamiche si ripresenteranno nella Lucie di Pola X), ma s'incentrava su un punto di vista maschile, Gli amanti mette in scena una dialettica tra i sessi maggiormente complessa. Michèle è oggetto scopico che si fa soggetto, e del desiderio detta le leggi: risponde allo sguardo (pretende che Alex posi per lei), è una donna che vuole vedere e vede, anche se sta perdendo la vista. Carax non si fa illusioni (a questo proposito Martine Beugnet ricorda il canone maschilista occidentale secondo Laura Mulvey: «good girl is blind girl»), pone l'idillio reciproco nella precarietà di una malatti graduale e di una soluzione ipocrita: la riacquisizione dello sguardo da parte di Michèle, la consacrazione della propria identità, deve coincidere con la riammissione nella società dominante. È questa reintegrazione che Alex, paradigma dell'esclusione, non accetta: brucia, personaggio di fuoco, i manifesti che annunciano la scomparsa della donna, le fotografie da cui Michèle ricambia lo sguardo. E quando i due si rincontrano, Carax eleva il cinema a favola, li precipita in acqua, li fa scappare, insieme, nel fluire della Senna. S'innalza, sul finale di Gli amanti del Pont-Neuf quella dimensione fantastica coltivata lungo il film, frutto surreale dell'incontro tormentato tra questi marginali, che vivono in un luogo di transizione (l'anonimato della strada, il ponte in ricostruzione sopra il fiume) e che nei fremiti dell'amore individuano la via di fuga tra solitudine e socialità, libertà e costrizione. Il fantastico è il fantasma d'amore di Alex e Michèle, il virtuosismo dello stile (gioia avanguardistica, cinema delle attrazioni e meraviglia del classico) e l'artificialità del paesaggio ne sono il correlativo oggettivo, necessaria attività di un cinema che non lesina nel raccontare la quotidiana lotta per la vita, che non nega l'abisso della miseria: s'apre a scioccanti immagini documentaristiche in 16 mm, si sottrae allo spettacolo e registra i corpi dilaniati e umiliati dalla povertà, rifiutati dal Capitale; ma non si limita a incamerarli passivamente: Carax dona poi loro una soggettività e una forza desiderante fuori dalle logiche del sistema, facendo di Gli amanti del Pont-Neuf un melodramma perturbante, che guarda in faccia il rimosso e rifiuta la commiserazione, cinema che non rinuncia né a se stesso né alla realtà. E l'happy end non è rinconciliatorio: la favola e la speranza scivolano nello stucchevole, si fanno posticci (come nel recente Miracolo a Le Havre di Kaurismaki), abiurano al reale. Lì, per rispetto, il cinema si astrae, si certifica, dolorosamente, solo cinema, luogo d'utopia, sogno necessario.
Gli amanti – con il suo realismo poetico magniloquente e sucidale, gli occhi a Gance, Vigo, Cocteau, Chaplin e la New Hollywood – rappresenta per Carax una catastrofe economica. Quando il Festival di Cannes, 6 anni dopo, gli commissiona un «cortometraggio, una sorta di cartolina che riporti novità sul cineasta e sul suo progetto Pola X», lui invia Sans titre (1997), 8 minuti di aggressione sensoriale freneticamente montati, tra cinema di prossimità, backstage del film prossimo venturo, materiale d'archivio bellico e stralci acidi di muto. Tra cui la folla ridente che chiude il classico di King Vidor: Carax vuole agire, con livore dialettico, sul pubblico, su coloro che, per contratto, guardano. Pola X (1999) è il risultato. Adattamento del controverso romanzo di Hermann Melville Pierre o dell'ambiguità di cui il titolo del film è acronimo (la X, oltre che per CaraX, sta per decima stesura), narra di Pierre (Guillame Depardieu), agiato figlio di un diplomatico deceduto e d'una fascinosa madre che chiama sorella, scrittore di successo sotto pseudonimo, ora in attesa di sposarsi con una candida fanciulla dal non casuale nome di Lucie. Ma è l'oscurità che l'attende: Isabelle (Yekaterina Golubeva), clochard figlia di un teatro di guerra, gli rivela di essere sua sorella. Lui le crede, complici i sogni che lo perseguitano: lascia l'amore, lascia la madre, si trasferisce a Parigi, dove vive di stenti e incesto ospitato in una comune di terroristi ribelli. Stremato, distrutto nel fisico, inadeguato alle norme della società d'antica appartenenza, viene tradito. Cerca nel viscido cugino un capro espiatorio, trova la galera, mentre Isabelle, che non può vivere senza lui, non può che trovare la morte. Melville è sradicato dalle proprie coordinate spazio/temporali, in favore di un oggi e di un qui parigino/europeo, la sua propensione al doppio segno, alla drammatica parodia del romanzo gotico e dell'amor fou s'esacerba in un cinema gonfio sino all'implosione nella caricatura di animo romantico, innervato di ostinato maledettismo fuori dal tempo. «Il tempo è fuor di sesto. Oh, quale dannata sorte essere nato per riconnetterlo»: Pierre s'invaghisce del rimosso freudiano, storico e politico, Isabelle, figlia rinnegata e vittima di guerra, è quest'eccesso, che il presente ha nascosto ai margini e che Pierre non può che curare fuori dalla scena sociale, fuor di tabù (sublimando con la presunta sorella ciò che è vietato con la madre/sorella), fuori dalla propria identità. Come se Pierre, con il suo goffo, tragico rincorrere gli errori del tempo, non fosse che il fallimentare taumaturgo dell'Occidente. La consapevolezza dell'osceno, per Pierre, si trasforma nel rivettiano, pervasivo senso di complotto, un senso di soffocamento che induce alla folle ricerca di spiragli verso un'altra dimensione del reale, verso un'altra verità. Una verità letteralmente perturbante, che Carax restituisce violentemente franando la pianura accomodante della superficie verso il baratro, in un cinema fuori misura, costantemente aperto a un'estetica negata, all'imperfetto e all'asimmetrico, al disarmonico e al nauseante, squarciando lo schermo con stupri sensoriali, visivi e sonori, cercando di dissestare le abitudini raziocinanti, di rivolgersi direttamente al corpo dello spettatore, sposando in sé i tre generi che Linda Williams in Film bodies: Gender, Genre and Excess ha rivendicato come luogo di una corporeità emotiva ritrovata e ingovernabile: il porno, l'horror, il mélo. Isabelle, figlia dell'orrore, si presenta come un vampiro, in quella necessità del sangue (materia densa, reale e simbolica) riscritta dal cinema francese degli ultimi 20 anni, da Arnaud Desplechin in La sentinelle (1992), Olivier Assayas in Irma Vep (1996) e Demonlover (2002), Claire Denis in Trouble Every Day (2001) e L'intrus (2004), Philippe Grandrieux in La vie nouvelle (2002). Così Pola X, adattamento eretico in cui Depardieu Jr. irride la fedeltà borghese dei classici reinterpretati dal padre, in un vortice che si apre all'autobiografia, s'inserisce pienamente in quel movimento eterogeneo denominato “New French Extremity” (da Bruno Dumont a Gaspar Noé, da Catherine Breillat a Marina De Van, sino al nuovo horror francofono) dedito a un cinema sinestetico che reinquadri il corpo (anche, soprattutto, dello spettatore) come luogo politico.
Questa centralità si fa manifesta in Merde, episodio del collettivo Tokyo! (2008), in cui un essere deforme e amorale fuoriesce dal sottosuolo della capitale giapponese facendosi demone terroristico, riemersione inquieta di una Storia dimenticata. Merde, questo il suo nome, è un (s)oggetto incomprensibile e inclassificabile, altro e familiare, (un)heimlich, ma puntualmente iconizzato, ridotto dai media a materia di discorso binario, a spettacolo da Re per una notte, significante castrato a significato elementare, sottoposto alla meccanicità della Legge: non è un caso che questa satira paradossale si concluda con una citazione letterale di L'impiccagione di Nagisa Oshima (1968), macabra messa in assurdo kafkiano della disumanità del Potere. Il corpo di Lavant (assente in Pola X ma presente in un coevo adattamento di Melville, il Billy Budd trasformato da Claire Denis in Beau travail) ritorna protagonista, adeguando le corse di Alex al marciare sbilenco di Pierre: precipitato surreale dell'alterità dei personaggi caraxiani, attraversa e scompiglia lo spazio sociale (in quei carrelli in strada, ricorrente marca enunciativa al pari dell'armamentario da muto), fa del proprio fisico, del proprio movimento la rivendicazione di una personale e irriducibile misura, in una performance di body art provocante e angosciante, capace di scardinare anarchicamente le porte educate del buon senso, di farsi specchio deforme, continua messa in abisso, promessa mantenuta nel mutante ruolo di Holy Motors.