1. Quello che è variato attraverso le fasi del cinema francese è il posto e il ruolo della sceneggiatura. Per molto tempo è stato facile dire cosa fosse una sceneggiatura: una bella storia ben raccontata. Oggi non si può più – e per fortuna – dire così. Questa è la fonte di tutti i malintesi. È una sceneggiatura che si gira? È un film che si scrive? Queste non sono domande retoriche, io penso che gli sceneggiatori solo raramente scrivano i film e che, pertanto, i registi girino altro.

La sceneggiatura come è stata concepita fino a tutti gli anni Cinquanta è un'attività che si salda all'aspetto artigianale del cinema. Lontano da tutte le preoccupazioni artistiche, che sono state quelle della precedente generazione – quella della guerra e dell'anteguerra, gli anni di grazia del cinema francese – e che saranno quelli della generazione futura, il cinema a forte tendenza accademica dominante in quel periodo non ha un'altissima idea di se stesso. Le determinazioni su cui si costruisce seguono valori abbastanza prosaici, quelli del lavoro pulito, compiuto, ben fatto. Valori puramente materiali che lo tengono incollato a terra. Un culto del minimo denominatore comune che gli conferisce la sua soffocante coerenza. Questo periodo è quello dei settori puramente artigianali che ormai valgono per se stessi staccati da qualsiasi autentico progetto: scenari, costumi, fotografia. Lo sceneggiatore è, in questo contesto, per usare un termine rivoltante oggi in voga, un “professionista”. È un “professionista” nel suo non esorbitare mai dai limiti della sua competenza, nel suo nascondersi dietro al suo mestiere e fondersi nelle opinioni, nelle idee, nei punti di vista estetici allora in vigore.

In tutto questo, al centro, c'è un regista che sarà giudicato in base alla sua “abilità”, alla sua “competenza”, alla sua “scioltezza”, secondo la sua capacità di trasferire nell'insieme un timido principio unitario: quello del film-oggetto.

2. Il film-oggetto è concepito secondo l'estetica del finito. E del “sempre già finito”. È la scuola della sceneggiatura compiuta, della sceneggiatura che invade tutto lo spazio e che chiude il film su se stesso. La storia ben cucita si chiude come un pacchetto; idealmente non deve portare in sé alcun vuoto, alcun principio di assenza, tutto è pieno. Inquadratura per inquadratura, primo piano e sfondo sono sceneggiati e dialogati, e parola per parola. È la sceneggiatura del controllo, dove tutto, addirittura l'universo è guidato dalla drammaturgia. È la sceneggiatura trait d'union tra produzione e regia, terreno d'intesa e di tutti i compromessi, garante del prodotto di fronte all'industria.

E questo seguendo un linguaggio facilmente accettabile e comprensibile a tutti, quello di un'equazione senza incognite fondata sul rapporto tra un aggancio forte per attirare il pubblico – un soggetto, un tema –, dei “bei” personaggi per gli attori e il ritmo – o l'ingegnosità – della narrazione. Questo cinema è quello del dialogo scritto o iper-scritto, del dialogo ad effetto, di battute memorabili, ereditato dal teatro. Gli attori non sono, gli attori dicono.

Certo questa formula è quella della fase classica del cinema francese, quella di alcuni dei suoi capolavori, quella che ha portato al vertice il genio dei Prévert. Ma già nel dopoguerra incomincia ad avere il fiato corto. Per essere stato troppo usata. Per essersi irrigidita non più come mezzo ma come fine.

3. Non stupisce che, nei numerosi scritti polemici che François Truffaut e i suoi amici della Nouvelle Vague hanno dedicato alle pecche del cinema accademico, sia rimasto Une certaine tendance du cinéma français. È certamente quello del quale si può dire, a posteriori, che ha toccato il punto più sensibile del dibattito in corso. Prendendo a pretesto il genere a quel tempo più prestigioso, l'adattamento letterario – nel caso specifico quello del Diario di un curato di campagna – Truffaut contrapponeva il film di Bresson, la cui audacia e originalità rendeva giustizia alla scrittura di Bernanos, a una sceneggiatura di Aurenche e Bost, mai girata ma sintomatica delle peggiori pecche del cinema d'allora – e che sono del resto le stesse ancora di oggi.

Il punto non era Aurenche o Bost, né il Diario di un curato di campagna o Bresson. Il punto era contrapporre una sceneggiatura di sceneggiatori ad un film d'autore. Entrambi ispirati alla stessa materia, unanimemente riconosciuta. E dimostrare – cosa agevole nel caso in esame – che era il regista-autore, e lui solo, a fare opera d'arte. In gioco c'era naturalmente la riappropriazione del letterario da parte del regista. L'affermazione più netta – per quel tempo – che il regista è l'autore del film, pressoché integralmente, come lo scrittore è autore di un libro. Lo sceneggiatore invece, nel caso specifico Aurenche e Bost, snatura la materia letteraria. In senso proprio, come nell'esempio citato, come in senso figurato, operandone una caricatura nella forma di quel testo incompleto, handicappato che è la sceneggiatura.

L'influenza del letterario, e del cinema letterario, è stata determinante per la Nouvelle Vague che ha stabilito la natura peculiare del film d'autore, vale a dire del film scritto dal suo regista. La nozione di sceneggiatura si cancella nella volontà d'espressione del singolo. L'unità non si stabilisce più in modo centrifugo all'interno di una catena chiusa di competenze, ma in modo centripeto, muovendo dall'ispirazione di un regista. Che a questo punto dispone della libertà, e del dovere, di essere sempre in movimento. La sceneggiatura d'autore è una sceneggiatura aperta.

4. Qui occorre aprire una parentesi. Non è possibile parlare della sceneggiatura francese senza evocare il cinema americano. Il quale, senz'altro per via della sua natura intrinsecamente industriale, è fondato sulla sceneggiatura. Non è sul casting che si decide la produzione, è raramente sul nome di un regista, e nemmeno su un'idea: è su una sceneggiatura che viene scritta e riscritta, che passa di mano in mano, da uno studio all'altro, che subisce innumerevoli step-deals prima di approdare finalmente, a forza di versioni e rimaneggiamenti, davanti alle macchine da presa.

L'idea, la storia, il soggetto sono incontestabilmente i divi del cinema americano. E il lavoro della sceneggiatura consiste a trarne, a furia di accanirsi, la materia per un film. Ovvero un racconto standardizzato, accessibile – almeno in linea di principio – al pubblico di ogni parte del mondo. Quanti cineasti formatisi in Europa si sono persi in questo assurdo labirinto?

L'immutabilità, la forza di questo sistema che, in fondo, ha sempre fatto la vitalità del cinema americano, la sua caratteristica di esperanto, deriva dalle strutture stesse dell'industria. Come sempre la sceneggiatura è il prodotto dell'industria, l'oggetto delle sue peripezie, dei suoi calcoli, delle sue strategie. Ma nel momento in cui finalmente arriva il via libera, in cui il film entra in produzione, quello che ci si aspetta dal regista – e in questo il pragmatismo aiuta – non è che trasponga fedelmente la sceneggiatura sullo schermo, ma piuttosto che la faccia esistere imprimendovi una personalità, uno stile, una scrittura, tutte cose considerate, e giustamente, punti di forza commerciali. Il cinema americano sa (talvolta/in linea di principio) che una sceneggiatura filmata è una sceneggiatura morta. Una sceneggiatura è una combinazione di fatti e personaggi; si tratta di estrarne una vita.

5. Dalla Nouvelle Vague in poi, il cinema francese è fondato sul rifiuto della sceneggiatura tradizionale. Nell'ottica del cinema d'autore per ragioni evidenti. Ma anche nell'ottica del cinema per il grande pubblico che si basa prioritariamente sul casting. La regola è accontentarsi di intrecci schematici, di situazioni archetipiche – un inseguimento, una rapina, una vendetta – per far risaltare la prestazione di attori a cui tocca l'onere di dar corpo all'immagine del manifesto e di attirare lo spettatore.

Un racconto non vende un film. E nemmeno un'idea, una storia. Gli esempi abbondano, io ne considero due, dei nostri giorni. Il lancio di Blanche et Marie e quello di Hors-la-loi. Il sinistro bianco e nero sgranato del manifesto del primo, che raffigura Miou-Miou e Sandrine Bonnaire e nient'altro, non può fare a meno di indurre lo spettatore a pensare che il film – insomma, quello che il film racconta – è come un meno rispetto al casting. Quanto al manifesto di Hors-la-loi, film pieno di avventure e peripezie ma privo di casting, secondo la stessa logica, non può raffigurare niente. Concordemente all'opinione pressoché unanime, pressoché ufficiale del cinema francese, qui non c'è niente da vendere: solo personaggi minuscoli, indistinguibili, persi in mezzo ad una palude desertica. Non è un manifesto, è un emblema.

Il problema della sceneggiatura nel cinema francese oggi si riduce spesso alla predisposizione di un intreccio che si adatti a questo o a quell'esemplare di una serie di bellimbusti insignificanti, offrendogli l'occasione di esibire le sue mediocri prodezze atletiche.

Con la conseguenza di chiudersi sempre più all'interno dei confini dei generi, dove le variazioni si riducono ad essere meramente decorative. Laddove dovrebbero risultare paganti l'originalità, l'invenzione, l'innovazione, trionfano invece farfugliamenti e scempiaggini, sotto gli auspici di divi autocompiaciuti e narcisisti, dei loro agenti che li incoraggiano, e dei distributori che, nei loro calcoli a breve termine, ci trovano il loro tornaconto. La loro responsabilità nella triste situazione in cui oggi si trova il cinema francese è commisurata al notevole potere di cui dispongono e che utilizzano in modo così mediocre.

6. Il cinema d'autore, col passare degli anni, ha imposto la sua estetica della sceneggiatura. Non parlo del testo-sceneggiatura, parodia del romanzo, come lo esige il sistema di lettura dei differenziati, che sono il percorso di guerra di gran parte dei progetti autoriali. No, torno a parlare della sceneggiatura aperta, della sceneggiatura-testo, quella che non si chiude su se stessa ma risponde alle esigenze personali di un regista. Semplice canovaccio o meccanica di precisione, struttura drammatica innanzitutto, dialogata o meno, sviluppata o meno, ha una funzione di trampolino per il regista o i suoi interpreti. Iscrivendosi in un metodo globale, o delimitandolo essa stessa, è uno strumento per le riprese, e non queste per lei. Prima di tutto dispositivo, è lo strumento della libertà del film.

Una sceneggiatura aperta autorizza le singole autonomie. E evita alle riprese di addormentarsi in una passiva verifica dello script. L'intreccio deve potersi continuamente arricchire di elementi e luoghi nuovi, incorporarli quasi naturalmente. E gli attori devono disporre degli ampi margini necessari per prendere le misure dei personaggi. È in fase di riprese che avviene la creazione cinematografica, quando tutti sono tesi verso uno stesso scopo. Non è sulla carta. E il dovere minimo della sceneggiatura è quello di non intralciare il momento magico della scrittura di un film: quello della ripresa. Al contrario, deve prepararlo, deve inquadrarlo, deve preservarlo. È la sua ragion d'essere.

In questo senso, la sceneggiatura d'autore, la sceneggiatura aperta, anche se può avvalersi della collaborazione di uno sceneggiatore, dev'essere prima di tutto l'opera del suo unico destinatario – ed eventuale committente –, il regista. Per il quale la sceneggiatura è strumento di lavoro – e questa rimane una delle migliori definizioni di sceneggiatura.

7. Lo sappiamo, siamo di nuovo in un'epoca di “professionisti”. E forse per ragioni paragonabili a quelle che dominarono il dopoguerra. La nostra epoca ha infatti orrore di una sola cosa, delle passioni. Come gli anni Cinquanta attribuivano alle passioni le responsabilità della Guerra Mondiale, il presente – che freddoloso si mette al riparo da esse – le accusa in blocco del fallimento del Maggio '68, di quello degli anni rivoluzionari, dell'ingenuità degli hippy, tutti spauracchi degli anni Ottanta, che non sembrano rendersi conto che resteranno segnati dal marchio del torpore.

Domina il terrore dell'impegno, non si fa che parlare di oggettività, parola vincente di questi anni. Non c'è dunque da stupirsi se oggi siamo immersi in un ritorno ai valori artigianali del lavoro ben fatto, del prodotto pulito, finito. Se il significato ci ripugna a tal punto che siamo ridotti – senza pudore – a fregiarci dei meriti delle pubblicità e dei loro registi. Dal momento in cui non si crede più in niente, la forma è la sola cosa che resta. Oggetto di tutti gli sforzi, diventa scopo in sé. Oggi ci accorgiamo chiaramente che la sceneggiatura si richiude su se stessa. Percepiamo il ritorno dei valori tecnici, di compiutezza. E del disprezzo di sé che li accompagna.

(Cahiers du cinéma n.371-372, maggio 1985. Traduzione di Monica Corbani)