Frettolosamente liquidato in virtù dei blockbuster realizzati negli anni Settanta/Ottanta, come quel King Kong (1976), che pare dover ricoprire, all'interno della storia del cinema, il puro ruolo intermedio tra Cooper-Schoedsack e Peter Jackson, o L’inferno di cristallo, apoteosi del cinema catastrofista dell’epoca targato Irwin Allen, John Guillermin andrebbe in realtà più attentamente riconsiderato. Regista apolide, nato a Londra da genitori francesi, comincia a lavorare come documentarista in Francia per poi trasferirsi a Hollywood. Rapture, film del 1965, coproduzione anglo-francese, tratto da un romanzo di un autore inglese, Phyllis Hastings (Rapture in My Rags) è girato e ambientato in Francia ma parlato in inglese, con attori americani ad eccezione della francese Patricia Gozzi, l’adolescente protagonista che concentra nella propria figura inquieta lo spaesamento culturale del film. Tra Free Cinema e Nouvelle Vague, il film si avvale peraltro della collaborazione delle musiche di Georges Delerue, il compositore prediletto di Truffaut, e dell’adattamento dal romanzo di Ennio Flaiano.

Si racconta la storia di una famiglia, composta da un austero padre vedovo, una figlia quindicenne e la governante, che vive in una realtà isolata, una magione sperduta sulla costiera bretone in cui si è ritirata da Parigi alla morte della madre, per sfuggirne il dolore. La loro tranquillità sarà sconvolta quando daranno rifugio a un uomo ricercato dai gendarmi. Il film vuole essere un viaggio nella follia, nella psiche contorta della giovane Agnes, quindicenne dalla personalità turbata anche per la condizione di isolamento in cui è costretta.

La prima tappa è la perdita dell’innocenza della ragazza, dell’infanzia rappresentata dalla bambola a cui si rivolgeva come fosse un’amica in carne e ossa. Così come si infrange l’unicorno di cristallo di Amanda dello Zoo di vetro, la bambola di Agnes viene irrimediabilmente deturpata, sfregiata dal padre che la lancia dalla scogliera allo scopo di infrangere la dipendenza della figlia. Agnes reagisce creando con le proprie mani uno spaventapasseri, cui subito, nella sua immaginazione, conferisce la dignità di una persona reale. Un feticcio che assume una connotazione pagana, nel contesto di un paesaggio naturale, selvaggio, primitivo. Agnes si sente, infatti, depositaria della capacità taumaturgica di conferire la vita anche a oggetti inanimati. Così che, quando incontra il giovane evaso, non può che attuare un transfert tra questi e lo spaventapasseri, ritenendo di aver donato al pupazzo la consistenza di essere vivente. Agnes è il dottor Frankenstein con la sua creatura, è l’Ana Torrent de Lo spirito dell’alveare che ha trovato la propria figura prometeica nel soldato ferito.

Si passa all’adolescenza ai turbamenti erotici, all’innamoramento. Joseph diventa il visitatore di Teorema, concupendo prima la governante, scacciata per la reazione violenta di gelosia di Agnes, e poi Agnes stessa. Guillermin dosa sottilmente la tensione erotica che si insinua torbida, mostrando prima la schiena nuda della governante, poi i giochi di seduzione, la complicità degli sguardi. La gelosia di Agnes è quella per la sua creatura, che ha creato e plasmato con le proprie mani, e dunque le appartiene. La sessualità della ragazza è quella acerba di una Lolita. Deflagra, allora, l’amour fou, quello del creatore per la sua creatura. La Nouvelle Vague si incrocia con il cinema gotico delle figure di cera, il complesso di Prometeo con quello del Pigmalione. E al primo rapporto sessuale dei due assiste, presumibilmente posizionata dalla stessa Agnes, la bambolina deturpata. Nell’opposizione del severo padre, segretamente geloso, aleggia lo spettro dell’incesto. Il rapimento sensuale del titolo porta alla fuga degli amanti nella città dominata dalla schizofrenia dei suoi rumori, dei treni, dei martelli pneumatici, del lavaggio delle strade. I due personaggi che scappano sono classici amanti da Nouvelle Vague, sono i Louis e Julie de La Sirène du Mississipi: la loro evasione sfocia inevitabilmente nella miseria e nell’oblio. E la fine vedrà la morte di Joseph, colpito dai gendarmi, caduto nello stesso modo, nella stessa posizione, sullo stesso scoglio della bambola, tra i flutti che si infrangono violenti sulla roccia e con il capo coperto di sangue, deturpato proprio come quello del giocattolo. Una chiusa che suggerisce una lettura onirica, psicanalitica del film, insinuando il dubbio che tutta la vicenda possa aver avuto luogo nella mente di Agnes, in un atto di sublimazione la perdita della bambola. E nel finale un cielo di gabbiani, onnipresenti nel film, spettatori delle vicende umane, guarda e si fa guardare da Agnes.

Protagonista del film, realizzato in un bel bianco e nero seppia in scope, è il paesaggio, evidentemente paesaggio mentale. Le coste aspre, scoscese e frastagliate della Bretagna, i promontori alti, che si protendono sul mare, da cui si domina il panorama fino all’orizzonte, il vento, i garriti dei gabbiani. E poi la presenza di quel manicomio, dalle grandi cancellate in ferro battuto cui spesso Agnes si appoggia a osservare i pazzi che passano il tempo a filare la lana. È un cancello cerebrale che delimita la follia. Guillermin lavora su questa dimensione psicanalitica anche con la composizione dell’immagine, accompagnando lo spettatore nelle circonvoluzioni mentali di Agnes. Realizza inquadrature sghembe con caratterizzano la fase dell’innamoramento, dell’amour fou. Ed elabora scene con il padre e Joseph che si parlano davanti allo specchio, raddoppiando così le figure in scena. Riapre l’inconscio dei personaggi con le immagini interne dei filmini proiettati della famiglia, dove compaiono i personaggi rimossi della madre e della sorella. Ma soprattutto, si serve del paesaggio per dare vita a una condizione di isolamento, paradossalmente claustrofobica pur tra immense distese naturali. Il regista esplora lo spazio in senso orizzontale, con lunghe carrellate, e con riprese in campo lunghissimo, delle spiagge per esempio, e in senso verticale con una prospettiva dall’alto verso il basso. I punti di fuga della visione convergono verso il mare, il cielo, l’orizzonte, ma senza mai portare a una via di salvezza.

RAPIMENTO (Rapture), regia di John Guillermin, Francia/USA 1965, 104' (Eureka! – Masters of Cinema)