Potrebbe risultare blasfemo evocare la figura di Antonio Gramsci per un film uscito nelle sale italiane a ridosso del Natale, ormai tradizionale periodo in cui il cinema, per alcuni, rivive gli antichi fasti con code agli ingressi e incassi di decisiva importanza. Ma se il film in questione è opera di Ken Loach e dallo stesso viene più volte citato Il Capitale, la cosa non ci sembra poi particolarmente empia. Il pensiero gramsciano che vorremmo qui riportare è il seguente: «Non è vero che distrugga chiunque vuol distruggere. Distruggere è molto difficile, tanto difficile appunto quanto creare. Poiché non si tratta di distruggere cose materiali, si tratta di distruggere rapporti invisibili, impalpabili, anche se si nascondono nelle cose materiali. È distruttore-creatore chi distrugge il vecchio per mettere alla luce, fare affiorare il nuovo che è divenuto necessario e urge implacabilmente al limitare della storia. Perciò si può dire che si distrugge in quanto si crea. Molti sedicenti distruttori non sono altro che procuratori di mancati aborti, passibili del codice penale della storia» (Quaderni del carcere, Q6 §30).

Qualcuno in buona fede potrebbe pensare che l’uscita di Jimmy’s Hall nella settimana natalizia (nel resto d’Europa la distribuzione è stata ben calibrata dalla proiezione della première a Cannes fino ad oggi in Italia) sia semplicemente un caso; qualcun altro, in mala fede, potrebbe addirittura suggerire che finalmente c’è stata una svolta: cinema d’impegno in 77 sale italiane per il periodo natalizio! Per noi non c’è invece nessuna svolta, anzi: i “rapporti invisibili e impalbabili” a cui si riferiva Gramsci, sono quelli che, dominanti, impoveriscono, mai come in questo periodo storico, buona parte delle voci “distruttrici-creatrici” declinandole a pura merce, puro consumo. La futilità del film di Loach non è altro che questo: un buon prodotto natalizio. Lungi da noi giudicare Loach come “procuratore di mancati aborti”, sappiamo bene che stiamo parlando (solo) di cinema e che la cinematografia è semplicemente sovrastruttura. Ma proviamo sinceramente un po’ di confusione nel solidarizzare con chi, ben integrato nella struttura produttiva, ne critica le dinamiche utilizzandone il pensiero. L’esperto Loach sa bene che il cinema ha un suo pseudolinguaggio complesso per cui, nella compiutezza della società delle immagini, nulla è più artatamente ideologico di “raccontare” storie e di emozionare (verbo inteso nella sua vastità di accezioni) attraverso esse. Tutta la storia dell’estetica cinematografica è attraversata dallo Spirito dialettico delle immagini, dal pensiero che le percorre, rinnegare tale Spirito significherebbe rinnegare completamente la verità della storia del cinema.

Tutto ciò per dire che il buon Loach, certamente navigato cineasta e lucido conoscitore di Marx (memorabile, in Riff Raff, il non comune accenno al Lumpenproletariat come vero nemico della classe lavoratrice) e dei suoi epigoni, sa bene che non basta fare (materialmente) un film sulla libertà perché il film sia libero, come non basta fare un film su un comunista perché il film sia un film comunista. Il logos del cinema, più di ogni altra forma artistica, più di ogni altra sovrastruttura, esige ben altra sincerità.

Jimmy’s Hall, si sarà capito, è un film mediocre. La storia è quella del comunista irlandese James Gralton, che ritornato in patria dall’America, viene spinto dalla comunità, contro i suoi dubbi iniziali, a riaprire il Jimmy’s Hall, una sorta di centro sociale ante litteram. Nella sala di Jimmy si balla, si realizzano corsi di canto, attività sportive e, in generale, si vive liberamente la vita comunitaria. Ovviamente, il potere conservatore, costituito sostanzialmente dal connubio Chiesa e fascismo, si oppone con violenza a questa (ai suoi occhi) deriva comunista. La sala verrà bruciata e Jimmy verrà espulso dall’Irlanda.

La storia, realmente accaduta, è fin troppo semplice e schematicamente romanzata. Pur esulando dai chiari giudizi storici che il tempo ha fornito per inquadrare quel periodo storico, Loach cade in un manicheismo imbarazzante, elude la presenza di quei rapporti “invisibili e impalpabili”. Da una parte il male assoluto, violento, corrotto pronto a tutto, anche a frustare selvaggiamente la propria figlia; dall’altra il bene (assoluto), uomini di estremo buon senso, in cui anche la fondamentale  dimensione ideologica è completamente annullata. Il comunismo resta sullo sfondo, una parola da pronunciare solo in negativo: e infatti solo Padre Sheridan la pronuncia. E solo Padre Sheridan sembra essere effettivamente cosciente della lotta che si sta consumando: consapevole della propria identità, consapevole del pericolo di quella nuova comunità che si sta formando e soprattutto consapevole della carica rivoluzionaria del Capitale.

L’assenza della dimensione ideologica degli animatori della sala (molto più vicini agli attuali giovani disincantati della nostra odierna crisi che non ai comunisti degli Anni Trenta), si ribalta nell’assenza dialettica dell’opera di Loach. Lo spunto di una storia straordinaria di lotta (la scelta di una storia da raccontare piuttosto che un’altra fa parte della forma) resta quindi spuntato, decaffeinato, senza lo Spirito veritativo cui si faceva riferimento prima. La banalità della sceneggiatura, di vitale importanza nella costruzione di questo genere di cinema emozionale – nel sottotitolo si sottolinea: storia d’amore –, come spesso accade nel cinema di Loach (soprattutto da quando si affida a Paul Laverty: non è un caso che il film più interessante di Loach degli ultimi vent’anni sia, per chi scrive, Paul, Mick e gli altri, l’unico dai tempi di Terra e libertà che non vede Laverty occuparsi alla sceneggiatura) denota la trascuratezza di un’immagine che non prende mai profondità e, nel caso specifico, non appassiona. Nemmeno nella scena del ballo solitario tra Jimmy e Oonagh si riesce a convincere e ad emozionare, nemmeno con le stupende musiche jazz, forse l’unica nota positiva dell’intero film. Tutto pare troppo calcolato, schematico, scialba trasposizione letterale: i furori di cui si vorrebbe parlare (amore, ribellione, libertà, comunismo, ecc) sono privi del furore di chi lo realizza. Proprio quelle linee guida gramsciane sulla verità del comunismo vengono a mancare: “Non è vero che distrugga chiunque vuol distruggere.” Esattamente come non basta quindi definirsi rivoluzionari per agire nella trasformazione sociale, anche l’immagine cinematografica (analogamente costituita da “rapporti invisibili e impalpabili”) sfugge ai dogmatismi e risponde a leggi ben più profonde e misteriose, rispetto alla superficie della comprensibilità narrativa. Jimmy’s Hall promuove un’immagine esageratamente riconciliante e subdola. La storia di Jimmy Gralton resta un’occasione mancata, il film un qualcosa di cui si può fare a meno.

Jimmy's Hall – Una storia d'amore e libertà (Jimmy's Hall), regia di Ken Loach, UK/Francia/Irlanda, 2014, 109'