E hai ottenuto quello che

volevi da questa vita, nonostante tutto?

Sì.

E cos’è che volevi?

Potermi dire amato, sentirmi

amato sulla Terra.

(Raymond Carver, Ultimo frammento)

Sin dal cartello iniziale, che cita una breve poesia di Carver come epigrafe, Birdman si nasconde dietro al paravento di quella stessa erudizione cui Riggan Thompson affida il suo riscatto personale: ovvero, il desiderio di sentirsi “amato sulla Terra”. Ma l’amore e la popolarità per lui sono equivalenti, e questo innesca un cortocircuito che si ripercuote su tre livelli, tre scatole cinesi contenute le une nelle altre: in primo luogo c’è la carriera del vero Michael Keaton, rimasta ancorata ai Batman burtoniani, nonostante le indubbie qualità da lui dimostrate anche altrove; in secondo luogo c’è la vita del suo personaggio, Riggan Thompson, anch’egli tormentato dallo spettro di un supereroe che lo ha reso famoso negli anni Novanta, con cui il pubblico tuttora lo identifica; e, infine, c’è la vicenda narrata in Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, il libro di Carver che Riggan vuole mettere in scena a Broadway per rilanciare la propria immagine, indossando una maschera colta e minimalista che nessuno gli ha mai riconosciuto. I tre livelli si riflettono l’uno nell’altro, generando un effetto didascalico che coinvolge sia i dialoghi (spesso costruiti “a tesi”) sia i riferimenti culturali, come quella citazione attribuita a Susan Sontag che fa mostra di sé nel camerino di Riggan: “Una cosa è una cosa, non ciò che si dice di quella cosa”. Un po’ come dire che “Riggan è Riggan, non ciò che si dice di Riggan”.

Birdman è un film che nasce dall’esasperazione di Alejandro González Iñárritu di fronte al monopolio dei blockbuster sul panorama hollywoodiano, ma è anche l’oggettivazione di uno sguardo straniero sulla realtà americana, sintetizzata in un vortice che risucchia cultura pop, supereroi, società dell’immagine, letteratura “alta”, intrattenimento disimpegnato, celebrità virale. E qui risiede il limite primario della sua visione, il peccato originale di Birdman: Iñárritu non ragiona in termini di rielaborazione, ma di semplice opposizione. Laddove raffinati narratori come Michael Chabon, Neil Gaiman o Aimee Bender (per non parlare di registi come Brad Bird o Jeff Nichols) hanno saputo attingere alla cultura popolare per rielaborarne i topoi e valorizzarne il ruolo nell’immaginario collettivo, Iñárritu invece concepisce soltanto una livorosa, anacronistica gerarchia tra “alto” e “basso”, tra la dignità della cultura e la deprecabilità dell’entertainment (ovviamente separati). Non è difficile far coincidere il suo punto di vista con quello di Tabitha Dickinson, lo spietato critico teatrale del New York Times, nauseata dai divi hollywoodiani che «si danno premi fra loro per cartoon e pornografia», anche se il rapporto del film con la critica risulta ambivalente: da un lato ne condanna la codardia («Lei non rischia niente» dice Riggan a Tabitha), ma dall’altro ne celebra il potere, poiché una singola recensione può sentenziare la vita o la morte dello spettacolo.

In effetti, Birdman è perennemente in bilico tra gloria e fallimento, tra intuizioni brillanti ed esiti stucchevoli. I virtuosismi registici di Iñárritu, la perizia fotografica di Emmanuel Lubezki e le percussioni di Antonio Sánchez confezionano una sinfonia visivo-uditiva che scorre come un unico piano sequenza per quasi tutta la durata del film, dove le ellissi temporali si alternano senza soluzione di continuità: ne deriva un flusso perpetuo che dilata le inquadrature per agevolare l’effetto straniante del realismo magico, simulando una progressione rarefatta che ha la stessa consistenza di un paesaggio onirico. In tale contesto, i personaggi sono liberi di mostrare il loro lato parossistico all’interno di situazioni sempre più bizzarre, mentre la satira abbraccia un cinismo che raccoglie facili simpatie perché legittima un atteggiamento di rifiuto, giustificando una misantropia indiscriminata, distruttiva ed estremamente compiaciuta. Certo, la dimensione con cui deve confrontarsi non brilla per autenticità: è un mondo soffocato dalle ossessioni compulsive dei social network, che venera il sensazionalismo e divora i suoi miti a suon di visualizzazioni su Youtube, ma Birdman si limita a rimasticare la solita retorica vagamente tecnofobica, e il suo discorso sulla vacuità della fama all’epoca di internet (le “imprese” di Riggan sono cliccatissime, quindi virali) fallisce nell’illuminare la questione da una prospettiva inedita, e non regge il confronto con un qualunque episodio di Black Mirror.

Naturalmente, anche versare il proprio sangue sul palco genera scandalo: all’apice dell’identificazione tra arte e vita, Riggan si spara in scena come il suo stesso personaggio e ottiene così la popolarità che tanto sognava, pronta a trasformarsi in amore quando milioni e milioni di fan da tutto il mondo gli dimostrano il loro affetto sul letto d’ospedale. La legittimazione artistica giunge invece grazie al supporto di Tabitha Dickinson, che promuove “l’imprevedibile virtù dell’ignoranza” e ammira il coraggio di una rappresentazione tanto viscerale. È in quel momento che Riggan, finalmente “amato sulla Terra”, può esorcizzare le sue nevrosi e conquistare l’agognata sintesi tra realtà concreta e astrazione fantastica, ma anche tra celebrità e prestigio culturale. In un epilogo solo apparentemente criptico, la sorte del protagonista è affidata agli occhi della figlia, che ne decretano la salvezza: fra dramma e commedia, vince l’espediente magico.

Birdman, regia di Alejandro González Iñárritu, USA 2014, 119’