Il corpo veicolo di informazioni sociali ed espressione dei latenti rapporti di potere dell'attuale società capitalistica. Il corpo come protagonista filmato e il corpo attoriale come ente scomparso dalla scena. Foxcatcher è una sinfonia tragica – in tre atti – sulla trasformazione della funzione fisica nei rapporti di potere della società capitalistica, senza compiacimenti stilistici e con una rara coerenza tra oggetto filmato, stile e soggetto filmante.

Laddove la critica è relegata alla sfera del pre-giudizio, dell'amore aprioristico o forse dell'inerme inadattabilità della propria funzione al presente, affrontare un film come Foxcacther, in qualche modo, espone a un rischio: Bennet Miller è un regista americano che lavora dentro il sistema Hollywood, senza (fino a Foxcatcher) particolari aspirazioni autoriali e senza quell'aura di devozione che spesso accompagna i nomi di chi – dentro l'industria – produce opere che sovvertono o moltiplicano le prospettive di un genere cinematografico.  Miller non è Mann, non è De Palma, ma sopratutto non è i più recenti  Cary Fukunaga, Antonio Campos o Zal Batmanglij (per parlare dell'opinabile cinema statunitense a metà strada tra Los Angeles e il Sundance).

Prima di Foxcatcher due film: il calligrafico A sangue freddo e il più asettico Moneyball.  Non ci sono continuità stilistiche tra le tre opere e nulla avrebbe fatto supporre lo scarto offerto dall'ultimo lavoro. Foxcatcher è prima di tutto un film politico – nella sua accezione più pura – che mette a disposizione di una direzione d'intenti tutti gli strumenti possibili della messa in scena.  Perché, da un lato, nel raccontare la storia dei due fratelli Schultz e del loro rapporto con il mecenate John du Pont, Milller apre a un'espressività da cinema d'arte (dal found footage all'uso del sonoro, con continui giochi tra esterno e auricolarizzato), e dall'altro elegge i propri personaggi a incarnazioni dei sistemi di potere.

Foxcatcher non mira così a riscrivere un genere – come Alì di Micheal Mann, per intenderci – ma cerca di dissolverlo, creando una distanza incolmabile (come il suono distante delle parole pronunciate dai personaggi) tra la vicenda narrata e lo spettatore, uno spazio di raffreddamento dell'opera di intrattenimento a favore del tempo della riflessione.

L'operazione di dissoluzione è, però, già iscritta nello sport che viene scelto: la lotta libera. Uno sport senza spettacolo, senza pubblico, senza soldi, senza punti di riferimento geografici (le università in cui si pratica maggiormente sono gli anonimi stati del midwest: Utah, Wyoming, Missouri). Il più antico gioco olimpico, praticato in maniera pressoché immutata dal quinto secolo avanti Cristo a oggi, è privo di qualsiasi valenza spettacolare. Un'attività che trova il suo senso, come dimostrano i close-up su proiezioni e chiavi articolari, solo per chi la pratica, e che è, invece, ridotta in uno stato di tutto indistinto per l'osservatore esterno.

Partendo dalle leve e dagli schienamenti dei lottatori Miller assume il corpo dei suoi personaggi come luogo simbolico in cui incarnare la condizione umana nel sistema capitalistico, come oggetto di desideri – le latenti (o meno?) pulsioni omosessuali di John Du Pont – e di contraddizioni. I corpi statuari e titanici di Mark Ruffalo e Channing Tatum vengono così iscritti in quella sfera della purezza epica, dove non vi è alcuna ricompensa per il proprio lavoro. Un epos barbarico e puramente fisico che assimila l'agonista all'animale (i cavalli a cui vengono accostati dai continui montaggi alternati) e che lo dispone sullo stesso piano di purezza e incoscienza. Dall'altro canto, John du Pont incarna il capitale come oggetto senza corpo, capace di ricondurre (come una mandria) i corpi sfruttati a un ordine privo di alcun senso (un coach che non sa realmente allenare). Du Pont, non è quindi una figura del male nel senso tradizionale, non ha nulla del gigantismo satanico; il suo corpo, come uno spettro, scompare completamente dalla scena, inabissato in una poltrona, malcelato dalla tuta o nascosto dietro una scrivania.  Il suo desiderio è quello della società ipermoderna che usa i corpi per annullarli, li concupisce per consumarli (Mark viene iniziato alla cocaina da du Pont stesso, dipendenza che porterà alla fine della sua carriera sportiva) e abbandonarli.

L'asservimento di du Pont, non è portato unicamente sugli oggetti delle sue pulsioni ma anche – e questo avviene nell'ultima parte del film – sull'intero sistema di valori. A essere comprati non sono più quindi solo i lottatori, ma la lotta stessa. Con molta attenzione alla storia reale, vengono ripresi in maniera estremamente fedele i passaggi in cui, sul finire degli anni '80, du Pont strinse degli accordi con la Federazione Americana di Lotta Olimpica, volti a far diventare la tenuta Foxcatcher la residenza ufficiale della squadra olimpica americana.

L'acquisto di tutto lo sport non rende più possibile, per i due protagonisti, alcuna uscita dal mondo di du Pont perché – traducendo in una dialettica politica – non esiste alcuno spazio d'esistenza al di fuori del mondo del capitale.

La chiusa di Miller è però – dopo la fedele riproposizione dell'omicidio, perpetrato proprio per l'impossibilità d'acquisto del sistema di valori della lotta nella sua integralità – ancora più dura e sorda. Le ultime immagini mostrano Mark Schultz in un ottagono di arti marziali miste[1], dove la carne dei lottatori si offre come puro spettacolo. La fine di du Pont non ha portato a Mark alcun cambio di condizione: terminato un ciclo (di prodotto) non resta che rivendersi, nuovamente, come corpo da sfruttare.

Foxcatcher – Una storia americana (Foxcatcher), regia di Bennett Miller, USA, 2014, 134'


[1] Non casualmente nella realtà l'ottagono delle MMA è stato progettato da uno dei registi più emblematici della Nuova Hollywood John Milius.