“L’avvenimento non si confonde più con lo spazio che gli serve da luogo, né con il presente attuale che passa: l’ora dell’avvenimento finisce prima che l’avvenimento finisca, l’avvenimento ricomincerà allora a un’altra ora; tutto l’avvenimento è, per così dire, nel tempo in cui non avviene nulla.”

Bernard Groethuysen

The Tree of Life (2011), To the Wonder (2012), Knight of Cups (2015). Terrence Malick stringe le maglie della Storia dell’uomo in tre film distinti ma indiscernibili. L’estatico finale di The Tree of Life trovava nella fede in Dio vigore e armonia, caratteri essenziali fino al Medioevo, quello di To the Wonder nella Resurrezione, o meglio nel Rinascimento, la fiducia nell’uomo e nella sua galoppata verso lo splendore. Nell’ultimo capitolo di Knight of Cups rincontriamo la Resurrezione, stavolta scarica, vacua, segno di un’umanità marchiata dallo stallo e dalla perdita della fiducia che ha caratterizzato i secoli precedenti.

Il regista americano racconta la Storia sbarazzandosi delle storie, fluttuando in una distesa liquida, dove le immagini (distinte ma indiscernibili) affiorano come estremità di iceberg congiunti solo in profondità. La narrazione puntiforme e il montaggio incurante della disseminazione lungo il film di luoghi, corpi e movimenti, permettono una riaggregazione dell’avvenimento all’interno dell’immagine, nella quale coesistono “un presente del futuro, un presente del presente, un presente del passato, tutti implicati nell’avvenimento, arrotolati nell’avvenimento, dunque simultanei, inesplicabili”, come affermava Deleuze citando a sua volta Sant’Agostino.

In Pod Elektricheskimi Oblakami, anch’esso in concorso alla Berlinale 2015, German jr. privilegia la prospettiva impressionista della molteplicità di punti vista in uno stesso affresco; Malick invece sceglie di collocare medesime voci (i voice-over, over and over again), medesimi movimenti (lo svolazzìo dalle lenzuola, l’andirivieni oceanico) e addirittura medesime immagini (quelle della Death Valley californiana, girate per The Tree of Life) in cosmi oggettivamente differenti. Se tre tempi coesistono all’interno di una stessa immagine, con Malick l’immagine coesiste in tre tempi differenti, in tre film differenti. Ma indiscernibili.

Knight of Cups è attraversato dalla balade di Rick, schiavo milionario del sistema hollywoodiano, protagonista, a malapena, della scoperta d’ambiguità di una vita che non basta a se stessa, nonostante la si ricopra d’oro e femmine da capogiro. Eppure Rick e il suo lamentio sono più di una semplice critica alla post-modernità. Non sembra più un caso, o uno sperpero imposto da diktat di produzione, la scelta di cast stellari sin da The Tree of Life. I vari Brad Pitt, Sean Penn, Ben Affleck, sono tutti risucchiati in Knight of Cups, in Rick e nella sua crisi d’identità, tutti coabitanti di un corpo al quale sfugge senza posa il tempo da sotto i piedi. Distinti ma indiscernibili, anche loro. Il voice-over si dimena tra i sussurri affinché non si possa ignorarlo. L’ostinata invocazione dei personaggi a Dio in The Tree of Life (“Where were you?”, “Who are we to you?” chiede rabbiosamente Jessica Chastain), in To the Wonder (“Flood our souls with your spirit and your life” prega Javier Bardem) e in Knight of Cups (“Look at me!” supplica Christian Bale) esige la confusione d’identità e la coesistenza in un atteggiamento alla ricerca di scampoli di redenzione e di libertà nel proprio fallimento annunciato.

Gli spazi percorsi da Rick non sono tappe di un viaggio onirico nel quale egli, disorientato, vaga per inerzia. I set hollywoodiani, i grattacieli di Las Vegas Strip, le spiagge californiane, gli strip club e i corpi delle donne sono spazi che domina quotidianamente. Gli stessi spazi una volta popolati, sono ora letteralmente evacuati dalla narrazione, permettendo l’emersione di punte di pulsioni e affezioni che Rick non può più ignorare. Malick contempla Antonioni, i suoi deserti e le sue desertificazioni (la Death Valley di The Tree of Life e di Knight of Cups riflettono quella di Zabriskie Point, così come il malickiano sgombero degli spazi segue la traccia nel vuoto lasciata dal finale de L’eclisse) nella potenzializzazione di uno spazio vuoto affrancato dall’avvenimento e dall’ordine temporale.   

Knight of Cups non è un film senza speranza come accennato all’inizio e la Resurrezione finale è svuotata solo se intesa come territorio primitivo, carica di potenziale e libera di essere riempita con una nuova verità. 

Knight of Cups, regia di Terrence Malick, USA, 2015, 118'