Come nella miglior tradizione filosofica orientale, il cerchio si chiude. Non è un caso infatti che il progetto di congedo dei due Maestri dell’animazione giapponese Hayao Miyazaki e Isao Takahata sia speculare a quello di inaugurazione dello Studio Ghibli da loro stessi fondato, che ventisette anni prima prevedeva l’uscita in contemporanea dei rispettivi Il mio vicino Totoro e Una tomba per le lucciole, sennonché, ora come allora, alcuni ritardi distributivi hanno fatto sì che i due film uscissero separati da un breve gap temporale.

I due registi condividono in larga misura gli stessi interessi tematici e la stessa sensibilità ecologista, dalla forte risonanza mitologica, ma se da un lato Miyazaki ha conservato (mirabilmente) il proprio stile di animazione, dall’altro Takahata si è dimostrato più aperto alle sperimentazioni rispetto al collega. La volontà di perseguire un approccio stilistico differente è evidente già a partire dal 1999 con la commedia familiare I miei vicini Yamada (Hōhokekyo tonari no Yamada-kun), costruita come un perfetto meccanismo bidimensionale di fotogrammi-haiku, che attraverso la tecnica del cut-out (ispirato parzialmente alla tecnica del maestro di animazione russo Yuri Norstein) scandiscono il (non) tempo del racconto e la dimensione entro cui si muovono gli eccentrici personaggi.

Con La storia della principessa splendente Takahata attinge a piene mani dal folklore nel trasporre il racconto popolare giapponese “Taketori monogatari”, storia di un tagliabambù che trova una minuscola bambina all’interno di un germoglio di bambù e, considerandola un dono degli dei, la alleva insieme alla moglie nella propria casetta rurale per poi trasferirsi nella capitale ed educarla al fine di farla diventare una principessa.

Takahata adopera per il film un tratto derivato dalla tradizione del Sumi-e, lo stile pittorico influenzato a sua volta dall’arte calligrafica dello Shodō. Il regista si pone così in netta discontinuità con il segno ricco e dettagliato tipico di Studio Ghibli: qui le linee sono più morbide ed essenziali, di una leggerezza evanescente che, nella sua ingannevole semplicità, evoca più di ciò che mostra. Nella spettacolare sequenza onirica in cui la principessa, sentendosi intrappolata nella sua lussuosa dimora cittadina durante il banchetto in suo onore, fugge attraverso i muri di carta e corre sotto la luna fino alla montagna in cui è cresciuta, mentre si libera degli strati del suo kimono e la sottoveste rossa volteggia come una scia di sangue, il tratto di Takahata si fa ancora più stilizzato e sfolgorante, quasi astratto nel comunicare il puro impeto con il quale la protagonista reagisce alle proprie paure e al senso di costrizione, circondata da un ambiente che pare svanire fagocitato dalla sua foga dolorosa.

La dimensione psicologica si intreccia così alla dimensione allegorica della narrazione, in cui il processo del lasciarsi alle spalle l’infanzia per entrare nell’età adulta si manifesta in tutta la sua terribile traumaticità: ovvero il morire poco a poco dentro, abbandonare la libertà del contesto montanaro dell’infanzia per sottomettersi alle forme e ai rituali della nobiltà, i quali non contemplano nemmeno che una principessa possa sorridere.

Condannata a essere bellissima e triste, inattingibile ai propri pretendenti, la protagonista giunge alla fine della propria parabola, in cui a rimanere è un celestiale sogno ad occhi aperti che spazza via ogni memoria e vissuto, per lasciare solo un lontano senso di nostalgia della vita, reminiscenza di un rimpianto per una felicità che sarebbe potuta essere, e che non è mai stata.    

La storia della principessa splendente (Kaguya-hime no monogatari), regia di Isao Takahata, Giappone, 2013, 137'