Il cielo. Sono tra i due film più importanti dell’anno a scrutare nel cielo, rivelando una presenza estranea, un parassita, un oggetto, un immagine non ben identificata, un neo che può esplodere o implodere, uno sporco. Se Apichatpong Weerasethakul, disegnando un paramecio sulla volta celeste in Cemetery of Splendour, riporta il mondo a un brodo primordiale, Jerzy Skolimowski, in 11 Minutes, buca il cielo con un pixel nero, non visto ma comunque suggerito, pronto ad avvolgere, sconquassare, decomporre un universo che ormai si identifica nell’immagine digitale. Immagine la cui precarietà, e fragilità, è la stessa di una società segnata da due crolli, quello del Muro di Berlino e, poi, delle Twin Towers. Una società che ha imparato a convivere con le macerie. Facile, scontato vedere nel numero undici del titolo un riferimento all’evento del 2001, anche per un regista che mostra una grande sensibilità alla contemporaneità. Skolimowski non conferma né smentisce: può esserci un legame involontario o inconscio, gli aerei che, nel film, volano basso servono a scandire intervalli di tempo. Certo è che l’11 settembre migliaia di vite vennero inghiottite nell’accartocciarsi delle grandi torri e che il film tratta proprio di questa estrema precarietà del mondo contemporaneo, capace di collassare all’improvviso.

Così 11 Minutes inizia, in maniera programmatica, con un preambolo che è un susseguirsi di immagini digitali, estemporanee, riprese da telefonini, videocamere, camere a circuito chiuso. Un prologo che precede le fatidiche ore 17, scandite le quali il film ha inizio. In undici minuti seguiamo le vicende di una serie di personaggi: un marito geloso, sua moglie, un'attrice sexy, uno squallido regista, un corriere della droga, un giovane disorientato, un ex-detenuto venditore di hot dog, uno studente impegnato in una misteriosa missione, un lavavetri di grattacieli, un anziano disegnatore, un team di paramedici, un gruppo di suore. Uno spaccato di vita metropolitana, in una grande città dominata dall’alienazione. Un groviglio di persone con le loro traiettorie di vita, dalle infinite possibilità di sviluppo. Traiettorie che possono procedere parallelamente senza mai intersecarsi o che, al contrario, possono trovare uno o più incroci, arrivare a concatenarsi tra loro, a ingarbugliarsi come in una matassa nel giro di 11 minuti. Tutto, nella vita e nelle relazioni tra le vite, è governato dal continuo oscillare di destino, casualità e causalità. Quando il destino ha radunato le tessere di un domino e fatto cadere la prima, le altre non possono che cadere in una reazione a catena. L’ultima sequenza del film, in cui convergono e deflagrano tutte le storie, funziona secondo un rigido meccanismo di causa ed effetto, come una gag delle commedie slapstick, un numero sospeso nel vuoto che porta al baratro e all’apocalisse.

11 minuti in una grande città, un grande organismo con un sistema vascolare fatto di strade, vie, incroci, traiettorie delle persone, della folla che le attraversa tutti i giorni. La routine, la quotidianità, il fluire delle cose in un mondo apparentemente ordinato, un universo di particelle che fluttuano e le cui eventuali collisioni possono in un attimo portare al caos. Skolimowski ingabbia le infinite possibilità che contraddistinguono il reale all'interno un’unità di tempo e di un flusso temporale lineare, con un montaggio alternato griffithiano in cui l'ordine delle microstorie si sgretola e disperde. E a partire da quel caleidoscopio di immagini digitali del prologo, prima dello scattare del conto alla rovescia finale, il film sarà costellato di quadri secondari, immagini nelle immagini, visioni multiple, riprese da apparecchiature digitali, specchi. Ma, nelle figure del regista e dell’attrice, si allude anche alla possibilità di generare ulteriori immagini. Skolimowski sembra identificarsi non tanto con questo personaggio di regista, che vede con distacco e ironia, quanto con la figura dell’agente di sicurezza alla consolle davanti ai tanti schermi con le riprese delle telecamere a circuito chiuso che scrutano il palazzo in tutti i suoi meandri. Un concentrato delle infinite scene che, come in una regia televisiva, si possono selezionare per decidere quali mandare in onda. Ed è proprio su uno di questi schermi che viene avvistato per la prima volta il pixel nero. Un novello dottor Mabuse con i suoi mille occhi: la stessa fascinazione voyeuristica e di controllo centralizzato che era il nucleo dell’ultimo film di Fritz Lang – dove peraltro il dottor Mabuse rivelava il suo obiettivo finale di distruzione del mondo – poi ripreso anche dall’hollywoodiano Sliver degli anni ’90. Ciò che per quei due film, nelle rispettive epoche, era ammantato da un’atmosfera malsana di perversione e malvagità, ora è un dato di fatto, in un mondo dove massime sono la riproducibilità e la moltiplicazione delle visioni.

Skolimowski si approccia a tale materia con un atteggiamento solo relativamente manicheo. Può esserlo solo nei confronti del regista e dell’attrice, che sono una parodia della Hollywood che detesta. Ma non lo è nei confronti di una società delle immagini digitali che si limita a contemplare. A 77 anni, il regista polacco si conferma osservatore acuto e attento della modernità e del contemporaneo.