La filmografia di Lav Diaz è impregnata di un lamento tragico per le tribolazioni della nazione filippina. Un paese tormentato da una natura violenta e da una geografia barbarica: tifoni e eruzioni vulcaniche che sono materia presente e viva nei film del cineasta. Ai cataclismi naturali si affiancano quelli storici, le dominazioni straniere, quella spagnola durata trecento anni, poi quella giapponese e infine quella americana. La lunga dittatura feroce di Marcos. Diaz ci è tornato più volte. Il terreno delle Filippine rappresenta una sorta di necropoli, le rigogliose foreste tropicali di palme dell’arcipelago costituiscono un bacino di smaltimento delle vittime della Storia. Spesso nel cinema di Diaz assistiamo a scavi, esumazioni, disseppellimenti, ricerche nella giungla di corpi occultati dei desaparecidos della dittatura o dei cadaveri sepolti dalle ceneri del vulcano Mayon, personaggi armati di pala e piccozza, medici legali addetti al riconoscimento delle spoglie. Anche in questo ultimo film c’è la ricerca, da parte della moglie, della salma dell’eroe nazionale Andres Bonifacio. Il cinema stesso di Lav Diaz è da vedere come un’opera di escavazione, della memoria e dei fantasmi del passato, un’operazione archeologica anche scomoda nel rimosso di una nazione. Con A Lullaby to the Sorrowful Mystery il cineasta filippino si spinge nel punto più lontano del passato finora raggiunto dal suo cinema, arrivando a una sorta di momento primigenio, a un ideale baricentro propulsivo di tutto il suo cinema. Parliamo della rivoluzione filippina del 1896-98 che portò all’affrancamento dall’atavica dominazione spagnola e alla conseguente nascita della nazione. Il film inizia con l’esecuzione per fucilazione, decretata dalle forze di occupazione spagnole, del patriota filippino José Rizal, il 30 dicembre 1896. Si tratta della figura centrale della storia del paese, che viene spesso citata da Diaz già dal suo quarto film, Hesus the Revolutionary. Vera e propria figura di uomo universale: Rizal è il principale eroe nazionale filippino e al contempo il più importante scrittore del paese, il suo romanzo Noli me tangere è l’opera letteraria fondante della cultura e dell’identità del popolo filippino. E ancora scultore, pittore, illustratore, linguista, medico e naturalista. La sua fucilazione, fatta eseguire da militari filippini collaborazionisti, generò una serie di moti che portarono alla fine della dominazione spagnola nel giro di due anni. La ricostruzione della sequenza dell’esecuzione di Rizal rappresenta un concentrato delle poetiche di Lav Diaz. Il patriota non si vede mai, è sempre fuori campo; il regista sceglie di non visualizzarlo, di non farlo interpretare da nessun attore. Anche la sua morte è quindi fuori campo, rappresentata da un ideale controcampo del pubblico che vi assiste, costituito perlopiù da donne disperate, in lacrime. L’inquadratura prende queste persone e i fucili dei militari che le tengono a distanza. La sensazione iniziale, da questa immagine, è quella che siano le donne a essere davanti a un plotone di fucilazione. Come spesso nel suo cinema, Diaz gioca con l’ambiguità dell’immagine, il cui senso arriva successivamente. L’uccisione di Rizal è rappresentata con l’audio degli spari e le oscene urla dei militari che inneggiano la Spagna e che sbeffeggiano il patriota come uno che se l’è cercata, mentre continuiamo a vedere lo sgomento sul volto della gente, e sentiamo i rumori degli uccelli che volano via spaventati. Come in Evolution of a Filipino Family l’epoca della dittatura di Marcos veniva raccontata attraverso le vicissitudini di una povera e semplice famiglia rurale, così anche qui si esprime la concezione della Storia del cineasta. La Storia non dei protagonisti, ma vista dalla gente comune, per come si ripercuote nelle sue vite, la sua passività e impotenza rispetto a decisioni prese da altri o dall’alto. La Storia è sfaccettata e mai univoca e Diaz dà conto anche del punto di vista degli occupanti spagnoli, proprio come i vecchietti al bar di Heremias – ancora il punto di vista popolare – rievocavano l’occupazione giapponese e lo spietato ufficiale Oshima che, secondo alcuni di loro, era sì crudele ma in fondo doveva fare il suo dovere di buon suddito del suo Imperatore. E la Storia si ripeterà tragicamente, questo è solo il primo capitolo di una mitologia del suo paese. Arriveranno la dominazione giapponese, evocata in Heremias, quella americana e la dittatura e la legge marziale di Marcos, raccontate in Evolution of a Filipino Family e in From What Is Before, film chiosato dall’epitaffio: “Questa storia è la memoria di un cataclisma. Questa storia è la memoria del mio paese”. La Storia si ripete, come dicono più volte i personaggi di A Lullaby to the Sorrowful Mystery. C’è un senso forte di predestinazione al martirio, di consapevolezza di un tormento endemico. Che ancora una volta in Lav Diaz si esprime con la metafora della malattia, costante nella filmografia del regista e che trova la sua più importante espressione in Florentina Hubaldo. In entrambi i gruppi di personaggi di questa ultima opera, c’è un membro affetto da una piaga, che rimane tale per l’intero film o quasi. Sono entrambi portatori di un trauma incurabile, in una concezione fisiologica del mondo e della Storia, dove la fisiologia si fa patologia, e il processo di guarigione sembra non aver mai fine. Il personaggio di Simoun è invalido e deve essere trasportato su una specie di barella di vimini. E altrettanto menomato è uno dei personaggi femminili, che è cieco.

L’uccisione di José Rizal dunque, il 30 dicembre 1896, come pulsione primaria del cinema di Lav Diaz che il regista decide finalmente di affrontare, di mettere in scena. Un progetto che in realtà Diaz rincorreva da tempo, avendo scritto la sceneggiatura già nel 1998. Ma si tratta anche del centro propulsivo del cinema stesso, del medium che Diaz usa sempre mettendone in discussioni fondamenti e convenzioni. Il cinematografo era stato appena inventato e, proprio quando Rizal veniva messo a morte, il marchingegno dei fratelli Lumière veniva portato in un tour asiatico, a Tokyo, Singapore e anche a Manila. Diaz mostra alcuni personaggi che parlano di questa nuova invenzione proveniente dalla Francia, definendola come fantastica perché permette di dare vita a un mondo alternativo e differente. Segue quindi una proiezione in un teatrino, di un filmato non originale dei Lumière ma reinventato da Diaz nello stile dei Lumière. Una pellicola che suscita stupore, paura e, quando il personaggio ripreso si avvicina in primo piano allo schermo, porta gli spettatori a rumoreggiare spaventati: lo stesso effetto che aveva avuto storicamente L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat. Segue poi un secondo spettacolo, sullo stesso schermo, ma stavolta di tradizionali ombre cinesi. E qui la gente è ancora più spaventata tanto da fuggire dalla sala. Diaz ha da sempre reinventato il cinema nelle sue fondamenta, ripensando ogni sua consuetudine acquisita, dalla durata, alla fotografia standard, ecc. E ha sempre concepito il cinema come un punto d’incontro, e di snodo, una composizione di forme d’arte diverse, narrativa, poesia, fotografia, musica: il cinema come territorio di conversione e decodifica delle stesse. Il lungo racconto della storia del cinema messa su libro dallo scrittore in Melancholia; i riferimenti, documentari e interviste, finti documentari e finte interviste, ai suoi registi feticcio, Ishmael Bernal, Lino Brocka, Jean Vigo; le interconnessioni tra cinema e potere, come strumento del primo o come opposizione a esso (è stato un film – ricorda sempre lo scrittore di Melancholia – dal titolo Iginuhit ng Tadhana: The Ferdinand E. Marcos Story a far andare al potere il dittatore Marcos); arrivando infine all’elaborazione di cinema in casa dell’essere heideggeriana, come ricerca di un ritorno alla purezza dell’essere, come la forma del linguaggio che mantiene intatta la freschezza dell’essere. Ora il cineasta filippino ricrea la prima scintilla stessa del cinematografo e la associa a una platonica caverna delle idee, la sua componente più potente. Diaz reinventa, rielabora il modo di rappresentazione primitivo, egli che ha una personale concezione del modo di rappresentazione istituzionale. L’emancipazione del suo popolo è in parallelo con l’emancipazione del suo cinema.

A Lullaby to the Sorrowful Mystery è costruito con i tradizionali schemi di Lav Diaz, una narrazione polifonica, una tessitura densa di plot e sub-plot. Di inedito c’è la fotografia diametralmente opposta a quella solita, estremamente naturalista. Ancora in bianco e nero, ma molto contrastata, qui è pesantemente artificiosa, carica e costruita con esibito antinaturalismo. Soprattutto nella foresta, dove si svolge buona parte del film, vi è un pesante uso di nebbia, forte illuminazione a creare raggi di luce filtrati dalle fenditure nella folta vegetazione, riverberi luminosi, crepuscoli. In questo senso il film costituisce un unicum nella filmografia di Diaz, al pari del colore di Norte, the End of History. Si tratta di un omaggio alla cultura popolare, nel cinema e nei fumetti, al cinema muto, all’espressionismo, al genere noir classico. E rientra nella lenta discesa e progressione del film, dalla Storia al mito. Nel film ci sono figure realmente esistite – ma marginali e comunque reinventate – come Gregoria De Jesus (moglie dell’eroe nazionale Andrés Bonifacio di cui cerca le spoglie), Sebastian Caneo, Cesaria Belarmino. Ci sono poi personaggi presi direttamente dal romanzo Noli me tangere: Basilio (cosa che Diaz ha fatto più volte: anche il nome del personaggio di padre Tiburcio di Century of Birthing è preso dal libro e peraltro un personaggio con lo stesso nome è citato ancora in questo film); creature del folklore come Tikbalang/Engkanto, metà uomo e metà cavallo; e il leggendario eroe Bernardo Carpio, mitica figura di salvatore dei filippini, tra un Ercole e un moderno supereroe, in effetti molto rappresentato anche nei fumetti. E poi aleggia l’immagine ideale di Josefa ‘Pepita’ Tiongson y Lara, una bellissima donna immaginaria che simboleggia la madrepatria, cui è dedicata la ballata Jocelynang Baliwag, l’inno della rivoluzione (e del film). Ci sono poi immagini da film horror, come quella dei monaci della setta che recitano i mantra in trance immersi nella nebbia: sembrano degli zombie o dei fantasmi. Diaz crea un’atmosfera sospesa tra storia, letteratura, racconti popolari fantastici e mitologia, che palpita della fotografia di cui si è detto, e richiama anche quell’estetica del chiaroscuro da china delle tavole a fumetti, di cui lo stesso José Rizal era, tra le altre cose, un illustratore. Torna invece tutta la matericità del cinema di Diaz, l’idea di una porosità geologica del paese, nelle cui rocce, popolatissime, piene di antri, si annidano i nascondigli di sette religiose, la caverna segreta nella montagna del supereroe (le grotte di Montalban, rifugio di Bernardo Carpio) come quella di Batman, e quella dove invece il supereroe sarebbe imprigionato; passaggi segreti usati dall’esercito spagnolo per prendere di sorpresa gli insorti, come con un cavallo di Troia. Un sottosuolo carsico, il rimosso della nazione, che è anche pervaso di corsi d’acqua, come quello di un fiume, che può bloccare gli scavi di ricerca dei cadaveri. E ancora la foresta, che pulsa dei suoi rumori naturali, che funziona per i personaggi come un agorà dove incrociarsi e incontrarsi. E ancora, come nel finale di From What Is Before, abbiamo la conflagrazione degli elementi opposti: la casa in legno che prende fuoco davanti alle onde del mare, con il loro sciabordio incessante. Ancora ci si perde, si naufraga spauriti, nel flusso di otto ore delle immagini, di abbacinante bellezza, di Lav Diaz.

Negli annali delle sofferenze umane è riportato un cancro di un carattere così maligno che il più piccolo contatto lo irrita e stimola in esso un acutissimo dolore. Nello stesso modo, tutte le volte che in mezzo alle moderne civiltà mi è piaciuto evocarti, sia per aver la compagnia dei tuoi ricordi, sia per paragonarti agli altri paesi, sempre la tua cara immagine mi è apparsa affetta da un simile cancro sociale.

Desiderando la tua salute, che è anche la nostra, e cercando il migliore rimedio, farò con te quello che facevano gli antichi con i malati: li esponevano sulle scale del tempio, perché tutti coloro che venivano a invocare la divinità proponessero loro un rimedio.

E con questo fine, cercherò di riprodurre fedelmente il tuo stato senza compiacenza; alzerò parte del velo che occulta il male, sacrificando tutto alla verità, perfino il mio stesso amor proprio, perché, come figlio tuo, soffro degli stessi difetti e debolezze.

(José Rizal, prefazione di Noli me tangere)

Solo tu, mia anima adorata, mia amata

Purezza incarnata, grande bellezza ineguagliata

Profumo squisito di un fiore puro

Gentile primavera di gioia e forza di ispirazione

Eden ritrovato, fonte di sublime felicità

La gioia che porti mi può durare per la vita intera

Per il tuo sguardo affascinante e il più dolce dei dolci sorrisi

I boccioli fioriscono gioiosi per miglia e miglia e miglia

Fiducia cieca nella tua grazia, qualcosa cui il mio cuore si arrende

Un filo di speranza cui mi aggrappo fino al calare di questa paura

Sei la mia vita, la mia salvezza, non mi deluderai

In questo mare di incertezza, tu non mi lascerai affogare

Più umile, più onesto, alla fine ancora ti prego

Concedi una quantità del tuo amore a questo supplicante così vero

I mendicanti sono stranamente grati per la pietà – nella società

Meglio di una vita intossicata, senza anima né passione

(Jocelynang Baliwag)