Fischiato in proiezione stampa tra stentati applausi, si potrebbe considerare Personal Shopper di Olivier Assayas come un post-scriptum di Sils Maria, non fosse per la portata sminuente del termine. Tornano, qui, alcuni temi del film presentato a Cannes due anni fa – il doppio, la riflessione sui media, su essenza e rappresentazione del sé, tra pubblico e privato – ma se lì il discorso veniva articolato su vari fronti per mezzo di una narrazione più strutturata, qui l’intero concept fa perno, in maniera quasi claustrofobica, sulla figura della protagonista: assistente personale di una celebrità, Maureen (Kristen Stewart) finisce per trovarsi coinvolta in un thriller che sfocia nel paranormale, tra Parigi, Londra e il Medio Oriente, con tanto di ectoplasmi fantasmatici, stalker virtuali e oggetti che si muovono da soli. Il regista francese non è nuovo al melange di generi dagli sconfinamenti imprevisti e, soprattutto, altre volte ha ceduto alla tentazione di costruire un film intorno alla presenza carsimatica di un’attrice, basti pensare a Irma Vep con Maggie Cheung.

Così, inevitabilmente, Personal Shopper si rivela essere non tanto un film con Kristen Stewart quanto un film su Kristen Stewart, quasi un’operazione documentaria, al punto che chi si aspettava che il regista lavorasse di fino sulla sua nuova “musa”, portandola a offrire la prova attoriale “definitiva”, resta spiazzato. Ad Assayas interessa filmare la Stewart per quello che è e non per quello che potrebbe essere: il magnetismo dell’attrice – emanato dallo suo sguardo sfuggente e dal suo corpo androgino, mai così esposto sullo schermo – trova in lui un catalizzatore ideale, in grado di rendere al meglio l’esistenza doppia e specchiata di una venticinquenne idolatrata da mezzo mondo e in fuga perenne dagli obbiettivi di fan e paparazzi; una giovane donna che ha da poco fatto outing sulla propria sessualità e mai come in questo film ha modo di dichiararlo esplicitamente. Chi avesse avuto la possibilità di assistere alla conferenza stampa del film si sarebbe reso conto che tra la personalità della diva e il resto del mondo c’è uno schermo, una soglia sottile che si ha allo stesso tempo il desiderio e il terrore di valicare – da una parte e dall’altra – una soglia come quelle che nel film si spalancano d’improvviso, creando un’instabile comunicazione tra la quotidianità e l’altrove.

Nel suo porsi come totalizzante, sublimata al punto da farsi quasi disturbante, l’ex star di Twilight si configura come vera e propria presenza estranea all’interno del film, per cambiare pelle sotto lo sguardo di un regista evidentemente infatuato di lei. Nella scena chiave del film, si trasforma: intrusa nella casa della sua datrice di lavoro, si spoglia degli abiti casual e indossa quelli della star, assumendo su di sé tutta la sua pura e totalizzante iconicità. La ragazza qualunque, mingherlina e dai lineamenti sottili, è ora una vamp. Questo il potenziale incredibile che Assayas ha messo al centro di Personal Shopper e, se è lecito azzardare ipotesi, si tratta di un potenziale che aveva già colto in Sils Maria, per la precisione in quello straordinario momento in cui la Stewart si allontana in auto dalla casa della Binoche e, in preda al panico, è costretta da un malore a fermarsi. Riguardate quei trenta secondi di pura adorazione, e troverete il germe da cui è generato questo film. [Alessandro Stellino]

PECCATO ORIGINALE

Nel suo Julieta, Almodovar economizza sul suo stile barocco per raccontare una storia molto lineare tratta da tre racconti di Alice Munro. La cinquantenne Julieta sta per lasciare la Spagna, ma l’incontro casuale con un’amica della figlia, che la donna non vede da anni, la spinge a restare e a raccontare la sua vita in una lettera a lei indirizzata. L’espediente letterario offre il pretesto per far sì che quello che si apre come un mistero diventi in realtà un lungo flashback, nel quale l’attrice Emma Suarez “ringiovanisce” prendendo il volto di Adriana Ugarte.

Il passato che vediamo messo in scena è filmato come il presente, con la tipica fotografia vivida e kitsch a cui ci ha abituati il regista andaluso, a dimostrazione di quanto questo sia ancora attuale per la sua protagonista: lungi dall’essere rielaborato o concluso, è anzi ancora drammaticamente efficace sulla realtà di Julieta. La vicenda infatti è quella di una storia d’amore nata in una notte infausta, in cui Julieta incontra il pescatore Xoan su un treno sotto il quale si getta un passeggero che aveva tentato un approccio con lei. È questo il peccato originale che come un destino continua a segnare l’esistenza dell’impotente Julieta, legata alla tragedia anche dalla sua professione di insegnante di greco al liceo. Così non potrà evitare di sentirsi responsabile anche quando il marito perderà la vita in mare in seguito a un litigio. A rimarcare questo senso di colpa sarà la figlia Antia, che dopo essere stata vicino alla madre nella depressione del lutto, taglierà ogni contatto con lei. Ma il presagio di morte che accompagna Julieta è lo stesso sotto il quale è stata concepita Antia, e così le colpe delle madri ricadono sulle figlie: per questo anche Antia tornerà a farsi viva con Julieta dopo l’annegamento di uno dei suoi figli. Il presagio di morte diventa quindi il pretesto per recuperare il legame tra i superstiti della tragedia dell’esistenza.

Se nel film non mancano temi cari al regista (il rapporto tra donne, lo scorrere del tempo, il legame materno, l’omosessualità negata – solo per citarne alcuni), il modo di metterli in scena fa rimpiangere la verve, le svolte narrative e la vibrante e divertita volgarità dei film passati, forse a causa di un’eccessiva fedeltà al soggetto non proprio. Quello che rimane del regista è un fastidioso manierismo (come l’abitudine a disseminare mal sfruttati riferimenti all’arte), inadatto a raccontare questo melodramma poco avvincente. [Elisa Cuter]