CHRISTIAN PETZOLD: SOGNI LUCIDI
Principale esponente della scuola di Berlino e autore tra i più importanti del panorama contemporaneo, giovedì 30 novembre Christian Petzold sarà ospite alla Fondazione Culturale San Fedele di Milano per presentare, in prima visione, il suo film più recente, Il cielo brucia, vincitore dell'Orso d'argento, gran premio della giuria all'ultima Berlinale.
Tra la proiezione pomeridiana delle ore 15.30 e quella serale delle 20.45, alle 18.15 Petzold terrà anche una masterclass moderata da Leonardo Strano (filmidee, FilmTv) in collaborazione con Marco Longo (Fondazione San Fedele, filmidee).
Sulla costa del Mar Baltico, dove il nord della Germania incontra la Polonia, gli amici Felix e Leon si rifugiano per qualche giorno nella casa della famiglia del primo. L'idea è di dedicarsi al lavoro, un progetto fotografico per Felix e gli ultimi ritocchi a un romanzo per Leon, ma la quiete in casa è turbata da Nadja, presenza sfuggente percepita attraverso gli incontri amorosi e notturni, il cibo sulla tavola e la silhouette in bicicletta. Mentre il caldo inaridisce l'aria e gli incendi mangiano l'entroterra, Leon fatica ad accettare la leggerezza che lo circonda e si ritrova sempre più chiuso nella sua mente.
Un'iniziativa di Fondazione Culturale San Fedele in collaborazione con Wanted Cinema, Goethe Institut-Mailand, Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti.
Proiezione: 8 Euro.
Masterclass: 5 Euro (ingresso gratuito per gli studenti della Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti e per gli abbonati a San Fedele Cinema).
LOCARNO 75: FUOCO NELLA SORGENTE
In girum imus nocte et consumimur igni
Ogni tanto compaiono. Quei film che allargano le possibilità espressive del cinema. Quei film che, squarciando le posture della cinefilia e le abitudini percettive spettatoriali, investendo sulla ristrutturazione sensoriale e sull’invenzione di uno sguardo etico, costringono a riorientare le definizioni e le categorie con cui si guarda il mondo e lo si interpreta. Nuit Obscure – Feuillets sauvages, documentario d’osservazione diretto da Sylvain George e presentato Fuori Concorso al 75esimo Festival di Locarno, è questo, un’opera-mondo in grado di dislocare le dinamiche conoscitive dell’occidente contemporaneo in un altrove di tempo e di luogo. Nello specifico a Melilla, città spagnola del Marocco, spazio di confine tra Africa e Europa, non luogo fatto di virtualità espanse dove l’esistenza fisica quasi sbiadisce e si assopisce, limbo purgatoriale adibito alla sosta delle anime che migrano. È lì, dove si è in attesa di qualcosa che non succede, dove il tempo è durata senza sfogo nello scopo, dove i corpi di giovani ragazzi e uomini e donne faticano a possedere anche la propria esistenza e lottano tra le barriere di un ordine silenzioso e imperscrutabile, che George trascina lo sguardo. Senza nessuna messa in forma illustrativa, nessuna impostazione prospettica, nessuna manovra cartesiana di distacco razionale, nessuna storia: assente, anzi, rimossa la distanza dagli eventi, totale la continuità sensoriale.
Questa è la mossa di scarto che il regista compie rispetto alle categorie rappresentative occidentali: estendere attraverso le immagini lo shock subito dai corpi in migrazione, diminuendo e diminuendo la distanza rappresentativa, fino a ridurre a un’apparente convergenza lo scarto, comunque sempre asintotico, tra riproduzione e realtà. Per raggiungere questa congiunzione ideale il documentarista francese (che ha curato quasi tutti gli aspetti tecnici) opera attraverso una dissoluzione della riconoscibilità della propria grafia, secondo la logica di indebolimento della postura autoriale e proporzionale aumento dell’autonomia espressiva del reale. Non è però guidato da una fantasia ontologica di trasparenza, o dalla presunzione di cogliere un ipotetico punto di autogestione della realtà di fronte al quale posizionarsi in attesa per registrarlo; piuttosto si affida alla capacità di esprimere il proprio punto di vista (umano prima che documentaristico, se le due cose si possono scindere) non con un’esplicita enunciazione, ma con un annullamento che si istanzia come compartecipazione responsabile e testimoniale rispetto a ciò che si guarda. Questo annullamento porta George a compiere la radicale scelta di non organizzare in forma narrativa la grandissima quantità di materiale video generata dall’avvicinamento alla quotidianità dei migranti e di lasciarsi investire dalla frammentarietà esistenziale della vita di Melilla - anche se la fluvialità della notte oscura in cui si immerge richiama a sé geometrie precise (certe triangolazioni tematiche, come nelle sequenze dove i corpi diventano corpi merce destinati alla rete del capitalismo sommerso, sono segno di grande lucidità).
L’adattamento alla pressione incontrollata della realtà invece di essere segno di una timorosa ritrosia per la scelta di un punto di vista è prova di una presa di posizione radicale (ogni cosa possiede dignità d’esistenza, non c'è gerarchia organizzatrice e quindi non c'è punto di vista definitivo), che permette a George non solo di ribaltare in occasione di testimonianza etica la tensione di controllo sottesa a certe forme audiovisive contemporanee (le immagini di George a volte non sembrano diverse da quelle delle telecamere di sorveglianze che costellano l’enclave di Melilla, ma si diversificano da esse perché riarticolano la quantità di dati proprio in senso testimoniale) ma anche di restituire al reale l'intensità di senso che il reale stesso non sempre riesce a esprimere. Così, dal flusso informe delle immagini sorge una forma intellegibile, e così, scontornato dalla storia e dotato di diritto d’immagine, l’evento esistenziale (subito politico, sociale) risplende dell’intensità dolorosa che gli è propria, con tutta la forza di un fuoco che strappa la continuità anestetica prodotta dalla corrente mediale che domina l’orizzonte presente. Sbirciando in questo strappo abissale, in fondo a cui si muovono le immagini dimenticate, scartate, rimosse, lo sguardo spettatoriale che di solito si tiene a buona distanza scivola su un punto di curvatura inatteso: da lì non torna indietro senza essere diventato sentimento.
FIORE GEMELLO
Si distinguono poche parole, e ancora meno dialoghi, nell'opera seconda di Laura Luchetti. Gli scambi verbali sono spesso essenziali, incisivi, a tratti persino bruschi. La loro funzione è più contestualizzante che pienamente comunicativa, più ancorata a esigenze realistiche che a pregnanti manifestazioni di soggettività. Il film pare insomma ammantarsi di un mutismo che, nel corso della visione, si configura come racconto sospeso e rarefatto, finemente cesellato nella raffinatezza di immagini che non si riducono mai a meri virtuosismi, fungendo piuttosto da strumenti espressivi di una poetica della delicatezza.
Delicatezza e fragilità sono, nondimeno, le componenti umane che vengono amorevolmente intrecciate in Fiore gemello, un’operazione di misurata semplicità presentata nella sezione Discovery del Toronto International Film Festival 2018, dove ha ricevuto una menzione d’onore. Si tratta di un atto colmo di tenerezza, un gesto non dissimile da quello con cui il giovane migrante ivoriano Basim coglie dei fiori di campo e li trasforma in un braccialetto per Anna, silenziosa ragazza incontrata durante il suo vagabondaggio nella Sardegna rurale. Soli e spaventati, in bilico tra un passato traumatico e un futuro incerto, i due giovani intraprendono un faticoso viaggio in cui l’instaurarsi di un legame relazionale non si esaurisce in dinamiche affettive, ma matura in quanto frutto di un confronto empatico con l’altro. L’italiano di Basim è lacunoso mentre Anna, scioccata da un evento che l’ha spinta a una fuga disperata, si è volontariamente chiusa in un mutismo che pare diffondersi alle modalità con cui il racconto si dischiude. Eppure, proprio come i silenzi del film di Luchetti, l’afasia della giovane non è mai ostacolo alla comunicazione interpersonale o alla definizione di un rapporto: diviene piuttosto uno strumento linguistico fondato sulla capacità di percepire l’altro, il tutto a partire da un sentimento di comunione che fiorisce nella comprensione delle rispettive ferite. Come se la narrazione volesse testimoniare, a partire dal suo stesso comporsi, la possibilità di accedere a un modo alternativo di entrare in relazione, una via di contatto in cui all’ascoltare si sostituisce il sentire, l’essere sensibili a quei delicati moti interiori che, nella loro universalità, accomunano tutti gli uomini.
Il viaggio di Anna e Basim è esattamente questo: un toccante incontro empatico tra due anime fragili che, intrecciandosi, erigono un baluardo di resilienza in un paese per lo più crudele, indifferente, intollerante. Eppure, anche in mezzo a tanta asprezza, la macchina da presa pare non potersi esimere dal disvelare una bellezza dimessa. La fotografia di Ferran Paredes Rubio asseconda l’intimità di primi piani e dettagli, la morbidezza delle sfocature, i lievi sussulti della macchina a mano e la raffinatezza compositiva dei totali: il tutto confluisce in un affettuoso moto di valorizzazione dell’umano e delle sue fragilità, producendo un’enunciazione filmica che coinvolge lo spettatore nei suoi processi sensibili.
Al centro di Fiore gemello sta infatti la necessità di condividere una disposizione affettiva che trascenda la semplice solidarietà, virando piuttosto verso l’intelligenza emotiva, l’autocoscienza interiore, la consapevolezza del proprio e dell’altrui sentire. La Sardegna che fa da sfondo alle vicende di Anna e Basim si dilata in uno scenario sociale tristemente riconoscibile, un universo che rigurgita violenza, omofobia, razzismo, traffici di esseri umani, sfruttamento sessuale. Un universo individualista in cui la solitudine non solo è elemento ricorrente ma persino motivo di vanto per chi si colloca in cima a una spietata catena alimentare. E nonostante ciò (anzi, forse proprio per questo), il delicato sguardo di Luchetti si incarna nei protagonisti del film, plasma l’esperienza filmica dello spettatore e si sviluppa in un itinerario che, seppur snodandosi in uno scenario arido, attraversa delle oasi di speranza.
Tra queste vi è il giardino dove avviene il confronto tra l’anziano fioraio (che ha dato lavoro ad Anna) e il crudele trafficante di esseri umani, Manfredi, in uno dei pochi veri dialoghi del film: se il secondo trova inutile provare pietà di fronte alle cose delicate, il primo ne ha fatto il suo mestiere. La floricoltura, in definitiva, appare un atto di resistenza alla crisi sociale dilagante, una proposta di futuro perseguibile attraverso l’appigliarsi a “ciò che inferno non è”, per dirla con Calvino. O, direbbe forse Laura Luchetti, come apertura della propria sensibilità alla fragile bellezza dell’umano.
L'ARTIFICIO DEL REALE
Tra gli ospiti della Filmidee Summer School 2019 anche Adele Tulli, ricercatrice all’Università di Roehampton e regista di Normal, presentato alle 69ª edizione del Festival di Berlino e in anteprima italiana al Lovers Film Festival di Torino. Normal è un film che riflette sulle differenze di genere con apparente semplicità, accostando una dopo l’altra sequenze di vita quotidiana che pongono una domanda implicita: “ciò che vediamo è normale?”. Una serata alle giostre, un addio al nubilato o una festa sulla spiaggia diventano luoghi rivelatori delle dinamiche tra uomini e donne, osservati da uno sguardo curioso, imparziale ed estetizzante. Ne parliamo con la regista.
Con questo lavoro hai utilizzato il cinema come strumento di ricerca per il tuo dottorato: come è stato questo esperimento? Pensi che sia riuscito a portare i risultati che cercavi?
Il cinema è uno strumento del potere, poiché costruisce degli immaginari di riferimento attraverso il potere estetico. In quanto tale riproduce dei modelli, o al contrario può essere usato in modo sovversivo, cercando di disinnescare e interrogare questi immaginari. Il cinema è un linguaggio non soltanto di intrattenimento, ma potenzialmente politico, di ricerca e di riflessione, che può articolare idee piuttosto che raccontare semplicemente una storia. Il mio modello di riferimento è il cinema degli essay film, che è una modalità nata per articolare pensieri attraverso l’immagine. La mia ricerca di dottorato parte da delle domande, ma lo scopo del film non è necessariamente dar loro risposta. Tra l’ipotesi e la tesi ci sono le cose più interessanti, specialmente in un percorso artistico. Quello che conta sono gli esprimenti, gli approcci e il tipo di esplorazione che si fanno durante l’indagine.
Nel cinema si discute molto del confine tra reale e finzione. Tu hai deciso di rappresentare l'artificio della realtà con i mezzi documentaristici. Qual è la ragione di questa scelta atipica?
Il punto di partenza sono le riflessioni su come l’identità di genere sia materia artificiale, un costrutto sociale. Il cinema documentario si è spesso connotato come didattico, asservito all'ideologia e alla propaganda. Dall'altro lato gli è stato contestato di riprodurre il reale senza capacità di intervento critico, basandosi sull'illusione di poter raccontare con immediatezza la verità. Questa accezione viene messa in discussione nel cinema contemporaneo: accendere la camera è un gesto che implica una scelta, un’azione e quindi un’interazione. La cosa interessante è abbracciare completamente l’artificio del cinema documentario. Più l’artificio diventa esplicito e rivendicato, più l’intervento può essere sovversivo. Nel mio caso è chiaro che l’intento del film non è quello di registrare la realtà, ma esagerare in qualche modo tutto ciò che di artificiale e performativo avviene nel quotidiano. Devi trovare il modo di raccontare quella scena mentre avviene, è questa la sfida: approcciarsi a situazioni reali, che si svolgono fuori dal mio controllo, cercando di creare un’inquadratura artificiale, estetizzante.
Hai cercato di fare questo film evitando l’accezione di “sguardo femminile”, ma comunque la discussione sul ruolo di registe, spettatrici o protagoniste è ancora risonante. Cosa ne pensi?
Il mio tentativo è quello di riflettere su quanto la divisione dei generi maschile e femminile, con tutti gli stereotipi associati, sia un costrutto socio-culturale, e il film cerca di mettere in discussione questa visione binaria. Non sono d’accordo con l’idea che ontologicamente una donna ha un tipo di sguardo mentre l’uomo ne ha un altro. Viviamo nell’eredità dei Feminist Film Studies e del concetto di male gaze. Ma quell'idea di sguardo maschile è un concetto che non si riferisce necessariamente al male in quanto uomo: si intende piuttosto che il cinema, dalla sua nascita, ha sostanzialmente riprodotto lo sguardo dominante. Quando si parla di genere femminile si intersecano due livelli di discorso. Innanzitutto c’è quello delle possibilità che una donna ha. Se nelle scuole di cinema, statisticamente, c’è lo stesso numero di studenti donne e uomini, ma poi ai festival arrivano solo registi, vuol dire che nel mezzo succede qualcosa. Per esempio, ancora oggi è difficile affidare un set a una regista, credendo che non sia in grado di gestire un ruolo di leadership, un budget e uno staff sotto di lei. In secondo luogo, il problema di accesso alle opportunità non è un problema di sguardo maschile o femminile. Non è detto infatti che una donna faccia necessariamente film sulle tematiche di genere. Lo sguardo femminista invece è altra cosa ancora, cioè è quando viene fatto un film che riflette sulle dinamiche e i dispositivi di potere. Ma non deve per forza essere collegato al tuo sesso o alla tua sessualità, anche un uomo può farlo.
(Intervista raccolta in occasione della Filmidee Summer School 2019, realizzata con il sostegno della Fondazione Sardegna Film Commission)
L'ERESIA DELLA SCELTA
Abbiamo colto l'opportunità della Summer School 2019 per fare quattro chiacchiere con il regista friulano Alberto Fasulo, al suo esordio nella finzione con Menocchio, in concorso al Festival del Film di Locarno del 2018, e con la sua compagna e produttrice Nadia Trevisan.
Alberto, nella tua produzione pensiamo di poter riconoscere un certo “trasformismo stilistico”. Sei d'accordo con questa definizione? Da cosa pensi che scaturisca?
Parlerei di evoluzione, più che di trasformismo stilistico. Per me il cinema è uno strumento di conoscenza e un modo di vivere, una scelta di campo lavorativa che influisce sulla tua vita e su come ti relazioni ad essa: io non faccio il mio mestiere solo quando ho una camera in mano. È come se stessi sviluppando un linguaggio che si evolve mentre lavoro. La mia presa di coscienza è in primis nella scelta ogni mattina di continuare a fare cinema, cosa che non do per scontato. Voglio sentirmi libero di anche di fare altro. Piuttosto che fare dei film solo per comprarmi il pane, preferisco lasciare spazio a chi invece ha delle esigenze più interessanti.
Quali sono i registi contemporanei, italiani e non, e i film che ispirano la tua produzione?
Per me ogni film corrisponde a un momento della propria vita, quindi non c'è un un regista che io ritenga sempre interessante. Stimo molto Michelangelo Frammartino e Pietro Marcello, ma non c'è un film in particolare che mi abbia colpito. Mi sono piaciuti molto Estate Romana di Garrone e Cesare non deve morire dei fratelli Taviani, due film che mi hanno aperto la strada. Non ho mai pensato di fare un mio film avendo in mente qualcun altro, né ho mai trovato un film altrui che avrei voluto fare io. Nella follia mi sono detto che con Marcello, il protagonista di Menocchio, vorrei fare il remake di Aguirre - furore di Dio perché mi piacerebbe molto come avventura e sarebbe interessante da fare oggi, ma significherebbe rifare il film di un altro.
Ci è sembrato di notare delle forti similitudini tra il personaggio di Menocchio, eretico in lotta contro i dogmi della tradizione, e il tuo modo di fare cinema. Ti sei mai trovato, come Menocchio, a scontrarti con un potere che abbia messo in discussione la tua libertà creativa o d'espressione?
Io ho il mio modo di fare cinema, nessuno me l'ha mai negato. Non ho mai avuto a che fare con finanziatori, film commission o editor che mi costringessero a fare le cose in maniera diversa. Per me “scegliere” è una parola fondamentale, cerco sempre di instaurare delle relazioni e fare delle scelte che siano in linea con le mie necessità e i miei desideri. Non mi ritengo un eretico del mestiere, o meglio, se lo sono è perché tutti coloro che lavorano ai miei film sono eretici. Non mi interessa nemmeno essere “eretico” rispetto all'altra parte dell'industria cinematografica, perché credo che tutti abbiano diritto d'esistenza, e che il pubblico debba poter avere un “menù completo” da cui scegliere.
Il film è stato realizzato nell'ambito di una co-produzione italo-romena. Una scelta comprensibile in un contesto italiano in cui fare film non è scontato. Nadia, anche tu, in qualità di produttrice, sei indirizzata verso questa strada?
Tutti i film che produco, anche per altri registi, sono frutto di una co-produzione . Si tratta di film difficili e trovare fondi in italia è altrettanto difficile. Ho la fortuna di essere dislocata in una regione di confine, il Friuli, posizione che mi permette di avere rapporti facilitati con i miei vicini, come la Slovenia, la Croazia, la zona balcanica, ma anche, ad esempio, l’Austria e la Svizzera. La co-produzione è al contempo una necessità e una possibilità, la possibilità di accedere a un confronto fuori dall’Italia, sia per i registi che per i produttori. È un modo vero e proprio di fare cinema, che presuppone una comunanza di intenti.
Alberto, tu sei d'accordo con quanto detto da Bonifacio Angius sulla necessità di “educare” lo spettatore, traghettandolo gradualmente verso il cinema autoriale?
Io non sono d'accordo con le categorie in generale. Per esempio io potrei ritrovare me stesso in una scritta sul muro fatta da un qualche incosciente e considerarla poesia, oppure annoiarmi leggendo Dostoevskij. Lo stesso vale per il pubblico, tutto dipende da come approccia un film. Non credo che il mio cinema sia più autoriale o più commerciale di altri. Mi sembra una distinzione fine a se stessa che sposta l'attenzione dal film e il suo racconto. Poi posso dire la verità? A me stressa andare ai festival, fare sequele di interviste che mi rimbecilliscono e in cui finisco per dire sempre le stesse cose. Questo bisogno di essere riconosciuti è una malattia del nostro tempo. Per me l'importante è che un film esista. Prima o poi qualcuno lo vedrà. Quando faccio un film, chiedo a me stesso di farlo al meglio delle mie possibilità. Poi mi domando se io sia riuscito davvero. E se non riesco a darmi una risposta aspetto, la cerco. Quello che mi dà un film quando si materializza la realtà, quando la realtà a un certo punto mi parla, per me è necessario.
(Intervista raccolta in occasione della Filmidee Summer School 2019, realizzata con il sostegno della Fondazione Sardegna Film Commission)
NESSUNA RESA
Il cinema di Bonifacio Angius si muove in direzione contraria: si concentra sugli ultimi, sugli esclusi, all’interno di una provincia sarda arida e senza vie di fuga. Nel suo secondo lungometraggio Ovunque proteggimi, il regista ritrae due vite al limite. La Filmidee Summer School è stata l’occasione per incontrarlo, confrontarci con lui sulle sue passioni e sulla sua posizione nei confronti del cinema italiano di oggi.
In Ovunque proteggimi si sente una forte influenza del cinema americano degli anni ’70. Il film recupera l’elogio dei perdenti: una rarità nel cinema italiano di oggi, che sembra direzionato verso forme sempre più standardizzate. A tal proposito, come ti sei mosso a livello produttivo? Hai avuto difficoltà?
I produttori hanno letto nella sceneggiatura elementi standardizzati, su cui credevano di puntare, ma in realtà non sono mai stato interessato a un racconto prefabbricato. In questa incomprensione si sono innamorati della storia. Da parte mia, ho realizzato il sogno di mettere nello stesso film tutti quegli elementi espressivi che mi hanno fatto innamorare del cinema da adolescente. Penso, ad esempio, al melodramma o, addirittura, ai cartoni animati giapponesi, che contengono qualcosa di tragico e shakespeariano e che oggi, proprio per queste ragioni, vengono vietati ai bambini.
La componente musicale è molto rilevante nel film, elemento tipico della New Hollywood. Oltre a quel cinema quali sono i tuoi riferimenti?
Ho sempre desiderato realizzare un film con una colonna sonora forte. Il mio modello, seppur irraggiungibile, è la maniera in cui la musica viene utilizzata nel cinema di Scorsese, per esempio in Casinò. I miei riferimenti sono spontanei; riguardano principalmente i film che ho amato durante l’adolescenza: i primi Fellini, soprattutto Le notti di Cabiria, Toro scatenato, Un uomo da marciapiede. Da bambino ero davvero fissato con Rocky. Sono sempre stato affascinato dall’uomo comune che cerca disperatamente un motivo di riscatto. Amo quei film che compongono un anello di congiunzione tra l’aspetto autoriale e la capacità di dialogare con il pubblico.
Negli ultimi anni si sono affermati registi sardi come Salvatore Mereu e Paolo Zucca. Ti senti di appartenere a un movimento autoriale legato alla tua terra?
Sono amico di molti registi sardi, ma di certo non mi sento di appartenere a un movimento sardo; non mi va di essere etichettato, preferisco sentirmi parte del mondo intero e non ridotto a un’area cinematografica, che si sente unificata nell’orgoglio sardo. Il cinema italiano contemporaneo non mi piace. Quando mi capita di vedere qualche film, tendo a incazzarmi, perché spesso mi ritrovo davanti a lavori dopati e fasulli. Di solito si tratta di film sensazionalistici e che fanno leva su un tema ideologico, disprezzano e mancano di rispetto a delle particolari situazioni umane. Credo che sia stupido pensare di fare un film solamente su un tema, ma che sia importante rappresentare ciò che fa parte di noi e che potrebbe succederci. È necessario mantenere onestà e rispetto nei confronti dei personaggi che portiamo in scena.
Sembra che tu non sia appassionato del cinema di denuncia civile.
Detesto fare film contro qualcuno. È cinema: bisogna vedere il racconto, leggere il romanzo e seguire la storia. Imparare a immergersi. I miei non sono film di denuncia, ma film su dei personaggi. Penso, ancora una volta, a Toro scatenato, che è la storia di un uomo autodistruttivo e non di certo il film sul tema della corruzione nel mondo della boxe.
In Ovunque proteggimi non rinunci a situazioni comiche, nonostante la drammaticità rappresentata.
Sono un amante di Troisi, per me è un autore importantissimo. Cerco continuamente la comicità, anche nelle scene più drammatiche, che spesso sono quelle che mi fanno sbellicare dalle risate. Anche in questo caso alcune scene di Toro scatenato per me restano dei riferimenti. Non sono un sadico, ma credo che nella violenza sia insito il ridicolo, ogni scena deve avere un punto di ironia.
Il tuo stile di regia è essenziale, ma sempre funzionale alla narrazione.
Davanti all’opera cinematografica bisogna sentire qualcosa, provare un coinvolgimento emotivo e un interesse. Lo stile è subordinato al sentimento, è il modo in cui io riesco a farti arrivare un’emozione, una vibrazione, una sensazione sgradevole o piacevole. Lo stile non è la bella inquadratura. L’estetica di un film non è solamente il bilanciamento di un’immagine, ma anche l’onestà politica, il rispetto e l’amore con cui si affronta un tema umano.
(Intervista raccolta in occasione della Filmidee Summer School 2019, realizzata con il sostegno della Fondazione Sardegna Film Commission)
TRA VOLTI DALLA REALTÀ
Il dato reale dell’intimità e il dato intimo della realtà sono i punti cardine dal cinema di Claudio Giovannesi. L’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura vinto al Festival di Berlino 2019 con La paranza dei bambini è l’ultimo riconoscimento a un cineasta da sempre all’inseguimento di questo cortocircuito: compresenza di artificio autoriale e osservazione spontanea della realtà. In questo scambio si trova il punto di vibrazione del cinema del regista. E il volto dei suoi personaggi è il luogo di questo conflitto, il primo piano perfetto per liberarsi e incontrare un’altra intimità, quella della cornice naturalistica della Filmidee Summer School.
Nei tuoi tre film (Alì ha gli occhi azzurri, Fiore, La paranza dei bambini) le storie d’amore dei protagonisti hanno il tono disperato di una storia adulta, nonostante siano vissute da adolescenti. Questo genera un forte contrasto.
La posta in gioco della relazione sentimentale è altissima durante l’adolescenza, è una questione di vita o di morte perché non c’è la mediazione pensata e pensante dell’età adulta, che struttura e alleggerisce l’intensità giovanile. Quelle situazioni sono vissute dal punto di vista dei personaggi e quindi per loro sono fondamentali. La leggerezza è solo nel ricordo, mentre la vicenda si svolge in un presente caratterizzato dalla profondità, dalla passionalità e anche dalla brevità proprie dell’adolescenza. Quando faccio il film ascolto le storie di questi ragazzi e l’intensità deriva dalla natura anarchica e amorale di un momento che è pura scelta da compiersi.
Il volto è il punto di vibrazione del tuo cinema, il centro del tuo discorso, ed è la chiave di accesso all’emotività dei personaggi.
Il racconto del volto ti permette di avere un livello ulteriore di immagine. L’immagine diventa più intima, perché hai la possibilità di mostrare i sentimenti e quindi ti poni su un piano meno fisico e più immateriale. Questa è già una forma di approfondimento, non è un’immagine oggettiva, anzi, è soggettiva, risiede nel pensiero e negli stati d’animo. Il primo piano ti permette questo approccio.
Questo tuo punto di vista personale come si colloca invece nel contesto del cinema italiano?
So benissimo a cosa non sono interessato, detesto per esempio quando viene scimmiottato il cinema americano. Secondo me non è questo il mezzo per arrivare al pubblico, non dobbiamo essere la colonia dell’impero che riproduce formule estetiche che hanno inventato loro. Il pubblico ci deve essere, è imprescindibile. Bisogna pensare al cinema italiano come cinema europeo, non bisogna relazionare il film soltanto al proprio paese: è necessario per esempio trovare una coproduzione e pensare a una distribuzione internazionale. Soltanto così il proprio lavoro può assumere una forte identità.
A proposito di identità: con Gomorra hai avuto occasione di lavorare per la serialità. Qual è il tuo punto di vista sul suo successo? Non pensi ci sia un rischio di standardizzazione?
Il rischio delle serie televisive è l’esibizionismo della scrittura. Però il dibattito è aperto: Sorrentino ne elogia la libertà narrativa. Talvolta anche i lungometraggi hanno delle convenzioni: un contratto con una casa di produzione ti può obbligare a non superare le due ore. Mi auguro però che in futuro le serie dedichino maggiore attenzione all’immagine; al momento mi sembra che ci sia un predominio eccessivo della scrittura.
Quali sono invece i registi di oggi a cui guardi con ammirazione?
I registi più bravi del mondo secondo me sono Paul Thomas Anderson e Pawel Pawlikowski. Sono due esempi di mediazione perfetta tra la ricerca dell’immagine e il rapporto ideale con il pubblico. Ogni volta che fanno un film si vive un’esperienza. Mi piace moltissimo anche Andrey Zvyagintsev e ovviamente ho sempre apprezzato il lavoro dei fratelli Dardenne e di Kechiche, la cui influenza sul mio cinema è senz’altro presente.
(Intervista raccolta in occasione della Filmidee Summer School 2019, realizzata con il sostegno della Fondazione Sardegna Film Commission)
I MAGNIFICI 10: ROBERTO MINERVINI
È Roberto Minervini il protagonista del secondo appuntamento della rubrica dedicata ai "Magnifici 10": dieci registi dei nostri tempi indicano altrettanti film che ne hanno segnato la formazione professionale e l'apprendistato cinefilo.
L'uscita in sala del sul ultimo film, Che fare quando il mondo è in fiamme? (9 maggio), fornisce l'occasione ideale per indagare da un punto di vista inedito il percorso dell'autore marchigiano che con la lista delle sue scelte si rivela cinefilo raffinato e rigoroso anche nella passione oltre che nella pratica. Masao Adachi, Jack Smith e Ozualdo Candeias sono solo alcuni dei cineasti di riferimento ad emergere dalla selezione, in un arco temporale che parte da Vertov e arriva fino a Cuarón - due registi agli antipodi anche nel gusto dell'intervistato.
E se i dieci film scelti confermano la visione libera e aperta di un autore che nell'ultimo decennio ha rivoluzionato la forma documentaria, abbattendo con umiltà e coraggio gli steccati che ne imprigionavano la forma, obbligando a riformulare il concetto di "cinema del reale", forse in pochi avrebbero immaginato di trovare Debord e Terayama in cime alla sue preferenze. Opzioni che gettano una nuova luce sulla coerenza profonda di un approccio al cinema militante e viscerale che passa, necessariamente, dalla messa in discussione e dalla sovversione dell'ordine precostituito.
1. Il primo film che ricordi di aver visto
Fantasia (1940) di Walt Disney. Lo vidi al cinema a Fermo con la mia famiglia. Avrò avuto 4 o 5 anni. Ricordo la musica di Mussorgsky, così come l’incanto e la paura provati in sala.
2. Il film che ti ha fatto venire voglia di fare cinema
Wanda (1970) di Barbara Loden. Lo vidi in un momento di totale rigetto del cinema francese. Non ne potevo più del “character study” borghese d’oltremanica (sentimento che provo ancora oggi). L’approccio scarno e senza pretese di Barbara Loden mi colpì profondamente. Wanda è un film autoriale credibile, tanto quanto la sua autrice.
3. Il film che ti ha fatto scoprire il documentario
Entuziazm (1931) di Dziga Vertov. Film simbolo della lotta ideologica di Vertov contro il cinema narrativo nazionalpopolare russo. Deriso in patria e ignorato dalla critica per decenni, Entuziazm è l’esempio più elevato dell’uso dei tropi formali del manifesto di Vertov: ripetizione e movimento.
4. Il film che ti ha rivelato un nuovo modo di concepire il documentario
A Margem (1967) di Ozualdo Candeias. Un non-documentario magistrale. L’opera di Candeias mi spinse a guardarmi intorno e a raccontare storie che mi appartengono – o alle quali appartengo. E mi ha insegnato a raccontarle in modo franco e scaltro. Il miglior film autogenetico di sempre.
5. Il film che ti ha indicato la strada per un cinema militante
Funshutsu kigan - 15-sai no baishunfu (Gushing Prayer: A 15 year-old Prostitute) (1971) di Masao Adachi. Coraggioso film-riflessione sulla sessualità e la coscienza politica dei giovani giapponesi dell’epoca, alla ricerca di un’alternativa al mondo corrotto. Adachi è una figura rivoluzionaria, dentro e fuori il cinema, che ammiro moltissimo.
6. Il film più sovversivo
Non posso fare a meno di citarne due: Flaming Creatures (1963) di Jack Smith e Tomato Kecchappu Kôtei (Emperor Tomato Ketchup) (1971) di Shûji Terayama. Film satirici, ironici e antinarrativi, accomunati da un impeto sovversivo dirompente che trova la sua massima espressione nella sessualità. Smith e Terayama sono finiti in carcere per i loro film (così come Jonas Mekas, che si ostinò a proiettare Flaming Creatures nonostante il divieto della censura americana).
7. Un film che andrebbe riscoperto
A Mulher de Todos (1969) di Rogério Sganzerla. In piena dittatura militare, Sganzerla decide di fare un film critica della società maschilista brasiliana, imperniato su un’antieroina, una donna libera che su autodefinisce “il demonio antioccidentale”. La critica è diretta anche al Cinema Novo, paternalistico ed elitario, secondo Sganzerla. Un grande film-contro.
8. Il film di cui ti piacerebbe girare un remake
I racconti di Canterbury (1972) di Pier Paolo Pasolini. Film di volti e di linguaggi primordiali, che trasforma i racconti di Chaucer in una celebrazione della carnalità dell’esistenza umana. Il tutto, con un grande senso dell’umorismo e della poesia. Se mi offrissero di fare il remake tornerei in Italia.
9. Il film che faresti vedere in una scuola di cinema
La Société du Spectacle (1974) di Guy Debord. Un documento-critica devastante sui mali della società contemporanea - una società spettacolo dove le immagini sono merce di scambio, feticci che non rappresentano più il “vissuto”, bensì il “venduto”. L’utilizzo del materiale di archivio da parte di Debord è esemplare. Un lavoro monumentale che precede di quasi vent’anni Histoire(s) du Cinema di Godard, altro capolavoro del“cinema-database”.
10. L’ultimo film che hai visto
Roma (2018) di Alfonso Cuarón. Un film bugiardo di un autore crumiro. Non aggiungo altro.
I MAGNIFICI 10 - GLI ALTRI REGISTI
https://www.filmidee.it/2019/03/magnifici-10-miguel-gomes/
CANNES 69/11: LE NOSTRE PALME
Paolo Bertolin
Palma d'oro: The Neon Demon di Nicolas Winding Refn; menzione: Elle di Paul Verhoeven
Migliore regia: Cristi Puiu per Sieranevada; menzione: Cristian Mungiu per Bacalaureat
La rivelazione: Dogs di Bogdan Mirica, Diamond Island di Davy Chou, Yellow Bird di K. Rajagopal
Il film atteso che ha deluso le aspettative: Juste la fin du monde di Xavier Dolan
La scena cult: il test antidoping a sorpresa in Mercenaire di Sacha Wolf
La battuta indimenticabile: "It's good to have good girls around" (The Neon Demon); "Don't lose your sense of humour" (Toni Erdmann)
La canzone del festival: Maledetta primavera in Sieranevada
Pietro Bianchi
Palma d'oro: Personal Shopper di Olivier Assayas
Migliore regia: Anurag Kashyap per Raman Raghav 2.0
La rivelazione: Kleber Mendonça Filho con Aquarius
Il film atteso che ha deluso le aspettative: Dog Eat Dog di Paul Schrader
La scena cult: i primi 20 minuti di Fai bei sogni di Marco Bellocchio
La battuta indimenticabile: "Shame never stopped anyone from doing anything. Look at me" (Isabelle Huppert in Elle di Verhoeven)
La canzone del festival: No Type di Rae Sremmurd in American Honey di Andrea Arnold
Elisa Cuter
Palma d'oro: Personal Shopper di Olivier Assayas
Miglior regia: Elle di Paul Verhoeven
La rivelazione: Grave di Julia Ducournau
Il film atteso che ha deluso le aspettative: Juste la fin du monde di Xavier Dolan
Scena cult: il palazzo da evacuare e la ruspa che scava le fondamenta in Forushande di Ashgar Farhadi
La battuta indimenticabile: "Or is it just me?" in Personal Shopper
La canzone del festival: The Greatest Love of All di Whitney Houston in Toni Erdmann
Marco Grosoli
Palma d'oro: Elle di Paul Verhoeven
Migliore regia: Toni Erdmann di Maren Ade
La rivelazione: Hymyilevä mies di Juho Kuosmanen
Il film atteso che ha deluso le aspettative: The Last Face di Sean Penn
La scena cult: il prologo di Aquarius di Kleber Mendonça Filho
La battuta indimenticabile: "Il libro cuore, che fra l'altro è un capolavoro, ti fa una pippa: ti sei messo sotto le scarpe persino tua madre pur di fare successo" (in Fai bei sogni di Marco Bellocchio)
La canzone del festival: Greatest Love of All di Whitney Houston in Toni Erdmann
Roberto Manassero
Palma d'oro: Personal Shopper di Olivier Assayas
Migliore regia: Jim Jarmusch per Paterson
La rivelazione: Hymyilevä mies di Juho Kuosmanen
Il film atteso che ha deluso le aspettative: The BFG di Steven Spielberg
La scena cult: Kristen Stewart che indossa l'abito d'alta moda nella casa dell'attrice per cui lavora in Personal Shopper
La canzone del festival: Maledetta primavera in Sieranevada
Francesca Monti
Palma d'oro: Ma Loute di Bruno Dumont
La migliore regia: Cristi Puiu per Sieranevada
La rivelazione: Harmonium di Fukada Koji
Il film atteso che ha deluso le aspettative: Exil di Rithy Panh
La scena cult: ogni rotolamento dell'ispettor Machin in Ma Loute
La battuta indimenticabile: “Live every day like it’s your last, and one day you’ll be right" in Café Society di Woody Allen
La canzone del festival: Pink Floyd a volume altissimo di Rester vertical di Alain Giraudie
Giona A. Nazzaro
Palma d'oro: Sieranevada di Cristi Puiu
Migliore regia: Olivier Assayas per Personal Shopper
La rivelazione: Grave di Julia Ducornau
Il film atteso che ha deluso le aspettative: Apprentice di Boo Junfeng
La scena cult: la morte del vecchio in Rester vertical di Alain Giraudie
La battuta indimenticabile: "La prossima volta faremo meglio" in La mort de Louis XIV di Albert Serra
La canzone del festival: Dragostea tin dei di O-Zone in Juste la fin du monde
Daniela Persico
Palma d'oro: La mort de Louis XIV di Albert Serra
Migliore regia: Maren Ade per Toni Erdmann
La rivelazione: Mimosas di Olivier Laxe
Il film atteso che ha deluso le aspettative: Juste la fin du monde di Xavier Dolan
La scena cult: il confronto con i lupi di Rester vertical di Alain Giraudie; l'incontro tra il fuggivo e Ariane nel lago di I tempi felici verranno presto di Alessandro Comodin
La battuta indimenticabile: "La prossima volta faremo meglio" in La mort de Louis XIV di Albert Serra
La canzone del festival: God's Whisper di Raury in American Honey di Andrea Arnold
Giampiero Raganelli
Palma d'oro: Elle di Paul Verhoeven
Migliore regia: Koreeda per Umi yori mo mada fukaku
La rivelazione: La tortue rouge di Michael Dudok de Wit
Il film atteso che ha deluso le aspettative: Bu-san-haeng di Yeon Sang-Ho
Scena cult: tutti i dialoghi via Messenger di Personal Shopper
La battuta indimenticabile: “La prossima volta faremo meglio” da La mort de Louis XIV
La canzone del festival: L'internazionale da Exil
Emanuele Sacchi
Palma d'oro: Personal Shopper di Olivier Assayas
Migliore regia: Bruno Dumont per Ma Loute
La rivelazione: Neruda, perché pur conoscendolo da Larrain non me lo sarei aspettato
Il film atteso che ha deluso le aspettative: Loving di Jeff Nichols
La scena cult: la particolare forma di eutanasia in Rester vertical di Alain Guiraudie
La battuta indimenticabile: "Is it you? Or is it me?" in Personal Shopper di Olivier Assayas
La canzone del festival: Gimme Danger in Gimme Danger di Jim Jarmusch
Alessandro Stellino
Palma d'oro: American Honey di Andrea Arnold
Migliore regia: Cristi Puiu per Sieranevada, Albert Serra per La mort de Louis XIV
La rivelazione: Diamond Island di Davy Chou
Il film atteso che ha deluso le aspettative: Exil di Rithy Panh
La scena cult: il naked party di Toni Erdmann di Maren Ade; la vestizione di Kristen Stewart in Personal Shopper di Olivier Assayas
La battuta indimenticabile: “Ici?” in Ma Loute di Bruno Dumont
La canzone del festival: The Auld Triangle dei Pogues in I tempi felici verranno presto di Alessandro Comodin
CANNES 69/10: NEL REGNO DEL CINEMA
Non ci sono azzardi nella grande macchina di Cannes, pronta a triturare nomi di rilievo invitandoli con un film sbagliato ma che garantisce la presenza delle star (come succede al malcapitato Sean Penn invitato con il suo film-spot su Medici senza frontiere) e a servire alle distribuzioni internazionali il cinema d’autore più digeribile (e già digerito) dei Paesi più disparati (basti pensare al già visto Aquarius di Kleber Mendonca Filho). La competizione – seppur di ottimo livello, quest’anno – continua seguire uno schema ben stabilito, mostrandosi timorosa nell'accogliere il nuovo, anche quando si tratta di un'opera che omaggia la storia francese e il suo cinema. Non siamo gli unici a sostenere che La mort de Louis XIV di Albert Serra avrebbe meritato una collocazione differente dal fuori concorso: relegato in una delle sale marginali del festival, lo spettacolo dell’agonia del grande Jean-Pierre Leaud arriva a chiudere un cerchio tra questo mitico corpo cinematografico e Cannes (dove esordì bambino, al fianco di Truffaut) e ad aprirne uno nuovo per l’affermazione del cineasta catalano che, dopo la vittoria al Festival del film di Locarno con Historia de la meva morte, approda alla selezione ufficiale del festival, seppur da una porta accessoria.
Da qui, arriva potente e maestoso, ironico e raggelante, il nuovo affresco storico di un autore che sta mettendo in scena le trasformazioni del pensiero occidentale. Come già per il film precedente, in cui il gioioso edonismo di Casanova era risucchiato dai prodromi di un romanticismo vampiresco, anche La mort de Louis XIV racconta di un trapasso: non solo la lenta morte del monarca francese dal più lungo regno (settantadue anni di sovranità) ma soprattutto la fine macilenta di un simbolo del potere il cui male affiora poco a poco sulla pelle. Nel corpo gonfio e sterile di Jean-Pierre Leaud è covata una malattia che si impossessa di lui, come del resto nel suo lungo regno germinano i semi di quell’illuminismo che porterà alla Rivoluzione e segnerà la fine della monarchia. Protagonisti invisibili, nascosti nell’ombra e oscurati dalla potenza del Re Sole, sono i medici riuniti attorno al letto del sovrano: saranno le loro scelte a decretarne la morte per putrefazione e saranno loro i protagonisti di un’autopsia finale in cui Dio ridiventa pura materia, ridotto alle sole viscere. A loro è affidata l’ultima parola: di fronte all’evidente errore per non aver tagliato la gamba in cancrena del sovrano, dichiarano “La prossima volta faremo di meglio”, velando di distanza ironica questa maestosa ricostruzione di un tempo passato.
Interamente ambientato nella camera da letto del sovrano, La mort de Louis XIV sembra un epilogo del celebre film di Rossellini, a partire da quell’invenzione del potere assoluto come macchina della messa in scena che segna le prime sequenze del film. Già provato dalla malattia, Luigi XIV è ancora pronto a offrirsi come attore principale dello spettacolo, circondato dai suoi cortigiani che applaudono per ogni suo gesto e per ogni briciola di cibo ingurgitato. Il teatro di Versailles si trasforma nel quadro dell’immagine cinematografica, in cui il formato 2.35:1 è interamente ingombrato da questo corpo che vediamo solamente disteso. Il cinema-scope rivela una nuova potenza espressiva, riunendo in un’unica inquadratura un volto che resta impassibile di fronte alla morte e un corpo esausto che diventa preda dell’infezione più terribile. In una sequenza statica, centrale nel film, un lungo piano medio di Jean-Pierre Leaud colto in uno degli ultimi momenti di lotta contro il proprio destino di uomo, appare il soffio dell’effimera potenza del regnante, ma anche la forza di un cinema che sa elevarsi ad arte. [Daniela Persico]
FARE SESSO CON LA MORTE
C’è una sequenza di The Neon Demon che esemplifica al meglio la propensione cinematografica del suo regista, Nicolas Winding Refn: il montaggio alternato in cui la giovane protagonista Jesse (Elle Fanning) si fa oggetto immaginario del desiderio di Ruby (Jena Malone), intenta, nel mentre, a un rapporto saffico con un cadavere. Mai come in questo film è evidente la componente necrofila che caratterizza l’immaginario dell’autore danese, cosi perfettamente (e involontariamente?) teorizzata dalla scena appena descritta: si sogna di fare l’amore con la vita, ma si sta facendo sesso con la morte. Un profondo senso di impotenza attraversa il film dall’inizio alla fine, risultato di un gesto puramente contemplativo che non riesce (o non vuole) farsi concretamente possessivo, e non potendo trovare soddisfazione si risolve in atto cannibalico. Così il film, narcisisticamente, divora se stesso, si autofagocita, e non è certo un caso se, nel macabro finale, una delle modelle ossessionate dalla propria immagine raccoglie dal pavimento un bulbo oculare vomitato da un’altra per inghiottirlo a sua volta.
Chi non abbia ancora visto il film (in uscita nelle sale italiane l’8 giugno) potrebbe trovare criptiche queste considerazioni ma, nella volontà di non svelare tutto, possiamo quanto meno riassumere le linee di fondo del racconto: la sedicenne orfana Jesse arriva a Los Angeles dalla provincia, attratta dalle luci della grande città e da un futuro come modella, ma entra in contatto con un universo spietato, deciso a vampirizzarne l’immagine di virginale purezza. Fermiamoci qui. The Neon Demon procede animato da un demone fosforescente che fa di ogni immagine, di ogni inquadratura, una seducente esposizione di superfici, la coreografia per una danza di morte che solo nel terzo atto, cupo e visionario, trova un’impennata degna dei capolavori cui si ispira (Suspiria, Carrie). Ma il resto è vacua illustrazione di uno mondo privo di afflato vitale, riproduzione di uno scenario illusorio esattamente come il cinema che intende rappresentarlo.
Diventato già brand di se stesso, tanto da marchiare i titoli di testa con l’acronimo del proprio nome (NWR), Refn sembra essere schiavo di uno stile che vorrebbe bastasse a se stesso ma rischia, in mancanza di un pensiero, o quanto meno di una sceneggiatura che non sia solo abbozzata, di rivelarsi specchio dei commercial che viene chiamato a dirigere. Se Jesse è un agnellino sacrificale in mezzo ai lupi, anche il regista dovrebbe guardarsi dal dare loro in pasto il proprio cinema (come sceglie di non fare il protagonista di Rester vertical di Guiraudie, nel finale di un’opera ben più densa e significativa). “Beauty isn’t everything. It’s the only thing” (“la bellezza non e tutto, è l’unica cosa”), dice a un certo punto lo stilista alla giovane protagonista e Refn, in fondo, dietro l’apparente critica al mondo che descrive in maniera così spietata, condivide tale visione. Ed è libero di condividerla anche lo spettatore, ammaliato dal trip estetico, rischiando di realizzare, però, che sotto il vestito non c’è niente. O al massimo, il corpo in procinto di putrefarsi, di una bellissima donna morta. [Alessandro Stellino]
THIS MUST BE THE PLACE
A dispetto del titolo inglese After the Storm, l'ultimo film di Kore-eda Hirokazu ci mostra in realtà soprattutto quello che avviene prima del tifone cui Ryota, investigatore privato con velleità letterarie naufragate, si trova ad assistere a casa della madre, da poco vedova, in compagnia dell'ex moglie e del figlio. Siamo introdotti così nella frustrata quotidianità di Ryota, tra gioco d'azzardo compulsivo, richiesta di denaro ai parenti e la domanda che si pone costantemente su ciò che lo ha portato ad essere un fallito: “How did my life turned out like this?”. Il tutto però è registrato da Kore-eda con malinconica leggerezza e un sottile umorismo che ricorda sia certi manga sia Tati, non da ultimo nella rappresentazione degli spazi.
La madre di Ryota, Yoshiko (interpretata da Kiki Kilin, alla sua quinta collaborazione con il regista giapponese), abita in un condominio alla periferia di Tokyo nel quale lo stesso regista ha trascorso la sua infanzia: un progetto abitativo avveniristico costruito negli anni '60, abbandonato progressivamente a se stesso e rimasto ad ospitare soltanto persone anziane e sole. Il regista è magistrale nel rappresentare questa sensazione di promessa mancata, in bilico tra squallore e affettuosa malinconia: se all'inizio siamo portati a osservare il caseggiato, con i suoi abitanti e le sue abitudini consolidate, come se fosse un microcosmo addormentato, Kore-eda invita lo spettatore ad avvicinarsi, a entrare dentro a uno di questi appartamenti. La casa di Yoshiko è vecchia, affollata di polvere e ricordi accumulati, ma calda, reale, fatta di rapporti basati sulla condivisione dello spazio della quotidianità domestica, di riti cristallizzati nel tempo (il bagno serale ma soprattutto il cibo). Una dimensione domestica che diventa un tesoro prezioso e inevitabilmente lo spazio adatto a ricostituire la possibilità di un legame. Nulla ci svela però cosa accadrà dopo l'epifania della tempesta. La ricomposizione del matrimonio di Ryota appare improbabile, ma il tifone sembra destinato a segnare, più che una svolta nella sua esistenza, un momento di crescita nella sua percezione della vita: l'occasione cioè per riconsiderare le proprie priorità, per smettere di ambire a un percorso al quale non era destinato, fare i conti con i suoi limiti e tornare così ad abitare se stesso. [Elisa Cuter]