Tra gli ospiti della Filmidee Summer School 2019 anche Adele Tulli, ricercatrice all’Università di Roehampton e regista di Normal, presentato alle 69ª edizione del Festival di Berlino e in anteprima italiana al Lovers Film Festival di Torino. Normal è un film che riflette sulle differenze di genere con apparente semplicità, accostando una dopo l’altra sequenze di vita quotidiana che pongono una domanda implicita: “ciò che vediamo è normale?”. Una serata alle giostre, un addio al nubilato o una festa sulla spiaggia diventano luoghi rivelatori delle dinamiche tra uomini e donne, osservati da uno sguardo curioso, imparziale ed estetizzante. Ne parliamo con la regista.

Con questo lavoro hai utilizzato il cinema come strumento di ricerca per il tuo dottorato: come è stato questo esperimento? Pensi che sia riuscito a portare i risultati che cercavi?

Il cinema è uno strumento del potere, poiché costruisce degli immaginari di riferimento attraverso il potere estetico. In quanto tale riproduce dei modelli, o al contrario può essere usato in modo sovversivo, cercando di disinnescare e interrogare questi immaginari. Il cinema è un linguaggio non soltanto di intrattenimento, ma potenzialmente politico, di ricerca e di riflessione, che può articolare idee piuttosto che raccontare semplicemente una storia. Il mio modello di riferimento è il cinema degli essay film, che è una modalità nata per articolare pensieri attraverso l’immagine. La mia ricerca di dottorato parte da delle domande, ma lo scopo del film non è necessariamente dar loro risposta. Tra l’ipotesi e la tesi ci sono le cose più interessanti, specialmente in un percorso artistico. Quello che conta sono gli esprimenti, gli approcci e il tipo di esplorazione che si fanno durante l’indagine.

Nel cinema si discute molto del confine tra reale e finzione. Tu hai deciso di rappresentare l’artificio della realtà con i mezzi documentaristici. Qual è la ragione di questa scelta atipica?

Il punto di partenza sono le riflessioni su come l’identità di genere sia materia artificiale, un costrutto sociale. Il cinema documentario si è spesso connotato come didattico, asservito all’ideologia e alla propaganda. Dall’altro lato gli è stato contestato di riprodurre il reale senza capacità di intervento critico, basandosi sull’illusione di poter raccontare con immediatezza la verità. Questa accezione viene messa in discussione nel cinema contemporaneo: accendere la camera è un gesto che implica una scelta, un’azione e quindi un’interazione. La cosa interessante è abbracciare completamente l’artificio del cinema documentario. Più l’artificio diventa esplicito e rivendicato, più l’intervento può essere sovversivo. Nel mio caso è chiaro che l’intento del film non è quello di registrare la realtà, ma esagerare in qualche modo tutto ciò che di artificiale e performativo avviene nel quotidiano. Devi trovare il modo di raccontare quella scena mentre avviene, è questa la sfida: approcciarsi a situazioni reali, che si svolgono fuori dal mio controllo, cercando di creare un’inquadratura artificiale, estetizzante.

Hai cercato di fare questo film evitando l’accezione di “sguardo femminile”, ma comunque la discussione sul ruolo di registe, spettatrici o protagoniste è ancora risonante. Cosa ne pensi?

Il mio tentativo è quello di riflettere su quanto la divisione dei generi maschile e femminile, con tutti gli stereotipi associati, sia un costrutto socio-culturale, e il film cerca di mettere in discussione questa visione binaria. Non sono d’accordo con l’idea che ontologicamente una donna ha un tipo di sguardo mentre l’uomo ne ha un altro. Viviamo nell’eredità dei Feminist Film Studies e del concetto di male gaze. Ma quell’idea di sguardo maschile è un concetto che non si riferisce necessariamente al male in quanto uomo: si intende piuttosto che il cinema, dalla sua nascita, ha sostanzialmente riprodotto lo sguardo dominante. Quando si parla di genere femminile si intersecano due livelli di discorso. Innanzitutto c’è quello delle possibilità che una donna ha. Se nelle scuole di cinema, statisticamente, c’è lo stesso numero di studenti donne e uomini, ma poi ai festival arrivano solo registi, vuol dire che nel mezzo succede qualcosa. Per esempio, ancora oggi è difficile affidare un set a una regista, credendo che non sia in grado di gestire un ruolo di leadership, un budget e uno staff sotto di lei. In secondo luogo, il problema di accesso alle opportunità non è un problema di sguardo maschile o femminile. Non è detto infatti che una donna faccia necessariamente film sulle tematiche di genere. Lo sguardo femminista invece è altra cosa ancora, cioè è quando viene fatto un film che riflette sulle dinamiche e i dispositivi di potere. Ma non deve per forza essere collegato al tuo sesso o alla tua sessualità, anche un uomo può farlo.

(Intervista raccolta in occasione della Filmidee Summer School 2019, realizzata con il sostegno della Fondazione Sardegna Film Commission)