Materia piegata dallo spirito. Così Georg Simmel definisce l’architettura. Ed è di questo che racconta L’infinita fabbrica del Duomo, documentario industriale e trattato filosofico, ultimo film di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, presentato nella sezione Signs of Life al Festival del 68° Festival del film Locarno. Di materia prima che di spirito. Didascalie in font elegante, impaginate su sfondo nero, adattano stralci di una guida di un tempo, Milano in mano di Guido Lopez e Silvestro Severgnini, e frammenti di Storia della veneranda fabbrica di Carlo Ferrari da Passene: scandiscono la Storia maiuscola della Cattedrale, ne rivelano i retroscena (l’essere frutto gargantuesco di una allucinata visione di Gian Galeazzo Visconti, l’essere costruita per merito delle ingenti offerte del popolo, l’essere palco utile per il narcisismo dei potenti) e ritmano con sintesi acute il tempo che dal primo blocco di marmo (estratto con questo fine nel 1386) giunge fino al Novecento. Le immagini, e i rumori, sono nel presente, non possono che esserlo. Così la macchina-cinema registra le fasi del continuo processo di restauro della chiesa, l’armonia tra la morte costante e la costante rinascita della Cattedrale, il lavorio della Veneranda Fabbrica del Duomo nella sua preservazione: dalla cava al laboratorio, dalla pietra che si frantuma alle luci che si spengono ogni sera. Immagini-prelievo di una storia minuscola e ricorsiva. Inesausta, inesauribile.

Due tempi, in dialogo: la grafia della Storia, racchiusa tra le pagine di due libri, e il succedere della storia di fronte alla macchina da presa. Due dimensioni: il grande, il piccolo. La maiuscola, la minuscola. Ovvero: l’immortale e il mortale, l’infinito e il finito, la pietra e l’umano. La natura, da cui tutto (film compreso) nasce e a cui tutto (film compreso) torna, fa il suo corso. Ci vogliono 10000 anni per trasformare un deposito di conchiglie in una vena di marmo rosa. Il Duomo è cresciuto da una conchiglia. Le conchiglie sono cattedrali. L’olmo, piantato quel 1386, è ancora vivo. In L’infinita fabbrica del Duomo c’è anche questo tempo, che è quello della natura, che è oltre la Storia, a regnare su tutto. Perché, sotto, Les statuent meurent aussi, ma rinascono, identiche a se stesse. E sono gli uomini a passare, a morire e a lasciare il posto a individui differenti costretti nel medesimo ruolo, sempre individui-ingranaggio al servizio della fabbrica. Negli occhi e nel cuore di un uomo, nel suo racconto, questo scontro tra caduco e immortale troverebbe i toni del tragico, del mesto, del commiserante. Il film di D’Anolfi e Parenti rivolta la prospettiva: protagonista è la fabbrica, un ente a sé, oltre il nostro senso del tempo. L’uomo compartecipa, piccolissimo, privo di volto. Non c’è epica. C’è meccanica, soprattutto. Amorevole cura. Lavoro. E, dunque, rapporto di potere. Dell’uomo vediamo “il gesto delle mani” (così si intitola un umile documentario di Francesco Clerici, lirico tecnofilm a difesa dell’arte manuale, vicinissimo eppure lontanissimo dal film di D’Anolfi e Parenti). Le dita accudiscono i corpi di pietra. Gli unici primi piani – i momenti in cui il cinema, tramite il tempo non-narrativo del volto restituisce l’unicità dell’individuo al proprio tempo interiore – sono dedicati al viso della Madùnina. E quando si parla di occhi, si parla dei suoi: quelli che allo scoppiare della guerra vennero coperti da stracci, per non far vedere loro l’orrore. Le soggettive, qui, appartengono alle statue. A riguardare il cinema di D’Anolfi e Parenti è come se dopo I promessi sposi e Grandi speranze s’allontanassero via via dalla figura umana: il momento maggiormente commovente della loro filmografia è l’oscena (dunque politica) agonia di un vitello (in Materia oscura, il loro film-chiave). Fuga dall’antropocentrismo, dunque. La pietra è pietra, solo segno che rimanda all’uomo, lo rimanda, e non lo rianima. Lasciate a Silvio Soldini le statue vocianti di Il comandante e la cicogna, a Rino Stefano Tagliafierro lo stucchevole sublime dell’arte animata di Beauty. Solo quando scende la notte c’è spazio per la figura intera – priva di un fine meccanico – di una persona a cui donare attenzione, come fosse il figlio della clochard che abitava clandestinamente Il castello di Malpensa: è un custode, gioca a un videogioco, tira due freccette a un bersaglio. Perché quello dell’uomo è, letteralmente, il tempo dell’effimero.

Se amiamo D’Anolfi e Parenti è per un motivo. Sono tra i pochissimi, in Italia, a usare il cinema per ciò che è, oltre ogni aura: una macchina analitica. Non un’estensione dell’ego, non un dispenser di facili emozioni. In loro ci sono una fede nel reale, una fiducia nel cinema, e un pudore verso l’uomo, che cresce di film in film. Raccolgono materiale d’archivio, registrano movimenti, cercano luoghi in cui il potere (in ogni sua forma) entra in contatto con l’individuo e l’ambiente, e lo informa. Guardano a Frederick Wiseman. Scelgono il loro punto d’osservazione. Nessun commento (perché le didascalie, quelle, sono già nel mondo). C’è solo coreografia del reale, mentre il disegno del suono cerca l’iperrealismo, ovvero un realismo aumentato oltre la misura dell’uomo, oltre il realismo annichilente della tv voce-centrica, immaginando qui il respiro autosufficiente della fabbrica infinita. Non c’è nessun conflitto, nessun interruttore narrativo, innescato dal luogo da cui hanno deciso di guardare: la fabbrica è bigger than life, non sente e non risente di nulla. Così dalla satira nel reale di I promessi sposi (ancora una delle migliori commedie italiane dell’ultimo ventennio, in cui la macchina-cinema era comunque nuda, il dispositivo dissoluto) la coppia di documentaristi è giunta oggi al pacato candore macchinico, alla seraficità monumentale di L’infinita fabbrica del Duomo. E se con Materia oscura s’erano spinti a riconsiderare quel che il cinema del reale può permettersi, per registrare l’invisibile (la vivesezione di una cavia, la morte di una bestia), accogliendo in sé anche tutti i paradossi del visibile (il materiale d’archivio, con quelle esplosioni di pirotecnica malia, di puro stupore spettacolare, che in vero erano peste per la zona circostante), qui il gioco e il giogo del cinema, la riflessione sul proprio dispositivo, si fa differente. Ovvero: nel continuum tra sistema e individuo, qui la loro pudica macchina-cinema sposa – per evitare come sempre le aporie dell’umanesimo coatto, del narcisismo lirico e dell’exploitation del reale rimesso in scena – lo sguardo inumano del sistema a cui l’uomo è sottomesso.

Volente o nolente, L’infinita fabbrica del Duomo, primo frammento (riguardante la Terra) espunto ed espanso di Spira Mirabilis, un futuro film-tetralogia sui quattro elementi e il tempo dell’immortalità, è un film sulla fisica, la microfisica e la metafisica del potere. Uno di quei film in cui il potere (religioso, cultuale, ideologico), è visibile solo nelle sue tracce vicarie, nell’architettura, nella scultura. Così, maggiormente s’appropinqua al potere, al suo tempo, L’infinita fabbrica del Duomo percepisce meno il conflitto, la mediocre tragedia dell’uomo. Per questo il tono del film è olimpico, sicuro, placido e impeccabile. Anaffettivo. Perché guarda gli uomini con gli occhi delle statue, dalle guglie, o con i semplici occhi della macchina di registrazione: piccolissimi. Figuranti. Inermi. La fabbrica è infinita, ma i fedeli non si menzionano nemmeno. È il paradosso del tempo, della storia e della Storia. È una questione politica. Ed è un cinema di nitore esemplare, questo, nudo fino alla didattica e al paradosso, autoriflessivo sino allo scacco, tutto concentrato sulla materia, sullo spirito che l’ha piegata e su quello che piega ogni inquadratura. Sul finale immagini dall’alto schiacciano i passanti anonimi, mentre i volti delle statue si stagliano in cielo. La sproporzione è un dato, una visione del mondo. Una tempesta sta arrivando.