Una volta erano loro tre, Oshima Nagisa, Wakamatsu Koji e Adachi Masao, i cineasti che, dalla fine degli anni Cinquanta, hanno incarnato lo spirito più corrosivo e anarchico dei movimenti di contestazione giapponese, chi più chi meno partecipando alla Nuberu bagu, la via nipponica alla Nouvelle Vague, coinvolti in quel Sessantotto che nel paese del Sol Levante si è espresso dieci anni prima del Maggio francese, con le forti manifestazioni di protesta dell’associazione studentesca Zengakuren alla stipula del trattato nippo-americano. Arrivando anche a simpatizzare per la lotta armata, per la formazione terroristica Armata Rossa Giapponese, che venne sostenuta apertamente da molti intellettuali che non consideravano i suoi membri (a differenza di quanto successo da noi) compagni che stavano sbagliando. Adachi Masao è stato il sodale sceneggiatore di Wakamatsu e di qualche film di Oshima, ma anche regista di opere sperimentali. Insieme al critico cinematografico e scrittore Matsuda Masao, con cui aveva fondato la rivista “Eiga Hihyo”, Adachi  elabora la teoria che si basa sulla lettura della società attraverso il paesaggio, andato incontro a un processo di omologazione, in agglomerati di non luoghi (come li definiremmo adesso) durante la crescita industriale degli anni Sessanta, ma anche sul paesaggio visto come teatro delle proteste e delle guerriglie urbane. Il concetto chiave di paesaggio (fukei) sostituisce così quello di situazione (jokyo) nell’analisi sociale marxista. I film manifesto di questo movimento, i cosiddetti fukei eiga, sono Serial Killer di Adachi e Storia segreta del dopoguerra: dopo la guerra di Tokyo di Oshima. La vita di Adachi cambia radicalmente quando, nel 1971, realizza con Wakamatsu un documentario sulla resistenza palestinese, girato a Beirut, dal titolo Armata Rossa. Dichiarazione della guerra mondiale. Adachi abbraccia la causa palestinese e rimane in Libano aderendo al FPLP, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, diventandone un militante. Fa ritorno in patria solo dopo ventotto anni, nel 2001, estradato dalle autorità giapponesi ufficialmente per violazione del passaporto, e qui riprende a fare lo sceneggiatore e il regista, pur con tutte le limitazioni e difficoltà alla sua libertà personale. Il suo ritorno al cinema genera ancora opere di grande impatto caustico: sceneggia Caterpillar di Wakamatsu, sorta di E Johnny prese il fucile giapponese ma con fortissimi elementi di satira del militarismo e dei crimini di guerra dell’esercito imperiale, e dirige Prisoner / Terrorist, dove prende ancora di petto i temi del terrorismo e della rivoluzione. Questo film racconta di un terrorista torturato nelle carceri nipponiche, ispirato palesemente all’unico attentatore sopravvissuto tra gli artefici del sanguinario massacro dell’aeroporto israeliano di Lod, nel 1972, azione compiuta da terroristi dell’Armata Rossa Giapponese su commissione del FPLP.

Premesse indispensabili per inquadrare il personaggio di Adachi, che ha improntato la sua vita nel segno della dissacrazione e della rivoluzione. Su di lui Philippe Grandrieux ha realizzato il videoritratto Il se peut que la beauté ait renforcé notre résolution – Masao Adachi, mentre Nicole Brenez lo annovera, insieme a Wakamatsu in quella tradizione di “cinema internazionalista”, che comprende per esempio il Gruppo Dziga Vertov, da lei citato in analogia con le Brigate internazionali che si mobilitarono nella Guerra civile spagnola, che si mette al sevizio della lotta dei popoli oppressi e colonizzati. Ora che Adachi rimane l’ultimo in vita della triade di cui sopra, il suo cinema rappresenta un baluardo di contestazione, dura e intransigente. E il suo ultimo film, Artist of Fasting, ci riporta alle vette alte del cinema di ribellione degli anni Sessanta, a film come Il cimitero del sole o Notte e nebbia in Giappone. Artist of Fasting rappresenta un nuovo cimitero del Giappone.

Il film inizia con un richiamo alla tragedia di Fukushima, evidenziando negligenze, omissioni colpevoli e insabbiamenti nelle indagini, rappresentando così un ulteriore contributo al cinema post-Fukushima. Dopo questo preambolo, seguiamo il protagonista, un signore anonimo che decide di sedersi su un gradino antistante la saracinesca di un negozio in una via commerciale. Qui rimane seduto e pratica il digiuno probabilmente per qualche forma di protesta. Rimane indefinito il significato del suo gesto, così come la sua identità. Ma questa sua azione, nella sua semplicità, risulta dirompente. Una folla sbalordita subito lo circonda e accorrono anche giornali e tv a intervistarlo per cercare di capire il significato di quel sit-in. Spiegazione che non verrà mai fornita. I curiosi si fanno i “selfie” con lui e solo i bambini ravvisano in quello strano personaggio qualcosa di artistico associandolo alla scultura del Pensatore di Rodin. Certo è che quell’azione anticonformista non può continuare: le autorità municipali la vedono come un pericoloso intralcio alle attività commerciali in quel quartiere dello shopping e fanno arrestare l’uomo per sottoporlo a rieducazione. Una situazione surreale o da teatro dell’assurdo, che non a caso Adachi ha tratto da un racconto di Kafka dal titolo Un digiunatore, e la cui la stessa messinscena ha rappresentato una vera e propria azione di arte performativa urbana.

Cosa c’è di più rivoluzionario in un mondo frenetico, bulimico, governato dall’imperativo morale di efficienza, in una dimensione urbana brulicante di traffico e gente in movimento, se non l’atto in sé di fermarsi, di rimanere seduti rifiutando il mondo circostante come in uno sciopero dal conformismo? C’è un singolare parallelismo nel cinema recente alla concezione espressa in Artist of Fasting ed è quello rappresentato dalla serie Walker di Tsai Ming-liang, dove un bonzo vive e agisce a una velocità diversa, molto più lenta, rispetto al resto della società. Le premesse, la condanna o il dissociarsi rispetto a una frenesia urbana nevrotica e alienante, sono le stesse. Ma per il regista taiwanese si tratta in realtà di distinguere due dimensioni, e due culture, diverse, quella occidentale e quella orientale, l’ansia e la meditazione. Per Adachi si potrebbe pure ipotizzare un significato buddhista in un richiamo all’iconografia del Buddha seduto sull’albero della Bodhi. Ma anche l’interpretazione ascetica è smentita dagli stessi sacerdoti che nel film accorrono a pregare attorno al digiunatore seduto. È la loro iniziale interpretazione, sottolineando anche il sincretismo di un tale gesto, di contemplazione e digiuno, che è stato compito dai fondatori del buddhismo come del cristianesimo e dell’islamismo. Ma il nostro personaggio non raggiungerà nessuna illuminazione, e non diventerà un nuovo messia.

Dopo la rieducazione torna sul suo marciapiedi e qui viene messo in una gabbia come attrazione. Attorno a lui si aggregano gruppi di personaggi che vogliono mettersi in mostra, sfruttando l’esposizione mediatica dell’uomo seduto. Un concentrato di umanità della società giapponese che Adachi mette impietosamente alla berlina. Ci sono le associazioni umanitarie, come Medici senza frontiere o simili, i rappresentati religiosi e quelli di sette. Ci sono i nazionalisti che mettono in scena il seppuku, il suicidio rituale dei samurai, al grido di “Banzai!” e che esibiscono tutta un’iconografia patriottica con le due bandiere, quella con il disco rosso del sole nascente semplice e quella con il cerchio sempre rosso da cui si dipartono i raggi, simbolo dell’imperialismo. E qui siamo davvero dalle parte de Il cimitero del sole. Oggetto di satira anche l’industria pornografica straripante in Giappone che non rappresenta più la trasgressione dei pinku che Adachi sceneggiava per Wakamatsu. La pornografia fa parte di una omologazione unica che comprende anche l’indignazione univoca e perbenista, che diventa una moda, di fronte ai recenti atti di terrorismo. E, per una persona con una storia come quella di Adachi, si arriva all’apice dell’irriverenza nel mettere in scena la ragazza discinta in tenuta sado-maso frustare l’uomo seduto al grido di “Je suis Charlie Hebdo”. E in questo teatrino Adachi esibisce, impietosamente, uno per uno, tutti gli scheletri dell’armadio del Giappone, anche avvalendosi di immagini e filmati di repertorio nello stile di Wakamatsu. Il razzismo insito nella società, citando la discriminazione nei confronti del popolo Ainu, l’etnia autoctona dell’isola di Hokkaido; gli atroci crimini di guerra dell’esercito imperiale, di cui sono riprese le celebri immagini delle distese di teste mozzate per le decapitazioni di massa, attribuibili o all’occupazione coloniale taiwanese o ai massacri di Nanchino.

Estasi e carneficina, erotismo e massacro, patriottismo e stupri seriali: il cinema arrabbiato di Oshima-Wakamatsu-Adachi si esprime ancora in tutta la sua potenza.