Il percorso di Paolo Benzi rappresenta una nuova strada per il cinema italiano, che lascia spazio alle “buone pratiche” di chi ha saputo inserirsi in una trasformazione del panorama produttivo internazionale, scommettendo su un cinema estremo e coraggioso. Una sfida che ha premiato il percorso non scontato del giovane produttore milanese, ma cosmopolita nello spirito. Quest’anno a Cannes Okta Film sarà presente con ben due progetti: da una parte l’atteso secondo film di Alessandro Comodin, I tempi felici verranno presto, presentato alla Semaine de la critique, dall’altra la selezione di Semina il vento di Danilo Caputo, tra i dieci progetti sostenuti dalla Cinéfondation, uno dei più importanti atelier di produzione al mondo.

L’incontro con il vitale produttore è stata l’occasione per ripercorrere i primi sette anni di una società che ha saputo gradualmente entrare in contatto con le più importanti realtà europee.


Per cominciare, sarebbe interessante conoscere il background di esperienze formative e di vita che ti hanno portato a scegliere il cinema come professione. Quando sei giunto alla consapevolezza di voler essere un produttore cinematografico?

Sono arrivato alla produzione molto tardi e con un percorso atipico, non avendo frequentato alcuna scuola di cinema. La scoperta dell’immagine in movimento è legata da principio alla città di Milano e all’esperienza con il gruppo Pandora che, negli anni ’90, organizzava delle rassegne cinematografiche con l’obiettivo di mostrare al pubblico autori all’epoca sconosciuti in Italia. Credo che sia stato un punto di partenza importante, ha contribuito alla maturazione di un gusto personale e mi ha formato alla ricerca di film e di autori. Invece, all’inizio degli anni 2000, a Bologna, dove avevo deciso di terminare gli studi universitari, mosso da una pura necessità economica e dalla voglia di trovare un impiego, sono entrato in contatto con una casa di produzione locale che realizzava documentari per la TV. Così ho iniziato il mio percorso professionale, attraversando tutte le fasi della produzione. Soprattutto, ho imparato a gestire quello spazio in cui il film nasce e che, trattandosi di documentari, non chiamerei set ma indicherei come qualcosa di più fluido: un territorio di relazioni e di scambio tra figure artistiche e realtà filmata. In quel periodo ho scoperto un’affinità con il cinema del reale, con le sue tecniche, e sono andato avanti attraverso la visione dei grandi maestri e con successive esperienze sul campo. Fin da allora la mia storia è stata un’intrecciarsi di incontri, un susseguirsi di collaborazioni con persone con le quali ho avvertito il desiderio comune di condividere dei progetti, di far accadere delle cose mediante il cinema. Il primo film ad avere una sua visibilità è stato Guerra di Pippo Delbono, nel quale avevo il ruolo di produttore esecutivo e dove mi sono confrontato per la prima volta con il compito di costituire una troupe, un gruppo di lavoro che avesse un senso rispetto al progetto. E quindi mi si è palesata un’altra sfaccettatura del lavoro da produttore, un’analogia con il ruolo che ha il direttore d’orchestra: una figura che sappia tenere insieme un gruppo più o meno variegato di persone capaci di suonare. E in Guerra emergeva già una forte impronta politica, che sarebbe diventata una vera e propria vocazione personale nei film successivi, espressa talvolta in maniera diretta, a livello di contenuto, di soggetto, ma spesso anche solo attraverso le scelte del regista, che si rende mediatore della realtà e assume in sé, nel proprio sguardo, una visione politica. Da quel momento, sempre di più, ho scelto di supportare autori che avvertissero l’urgenza di confrontarsi con una serie di istanze e di figure della contemporaneità o del passato e fossero pronti a farlo con una piena consapevolezza politica del gesto filmico: penso al documentario A filo d’acqua di Gian Enrico Bianchi o a Feltrinelli di Alessandro Rossetto, tutte tappe, passaggi che mi hanno reso cristallina la necessità di supportare sguardi schierati, appartenenti a persone pronte a imporre la necessità del proprio cinema.

Quindi nei film che hai citato tu svolgevi il ruolo di produttore esecutivo, giusto? Qual è stato il primo film che hai firmato come produttore?

In Feltrinelli ero l’organizzatore generale, il produttore esecutivo era Carlo Cresto-Dina e la casa di produzione Eskimosa. Anche se, in realtà, si tratta di un film realizzato girando tutti insieme in lungo e in largo per l’Italia, e all’estero. Quello è stato anche il primo progetto in cui mi sono misurato con la dimensione internazionale, pur non avendo una responsabilità diretta: partecipavano alla produzione Pola Pandora Filmproduktion e gli svizzeri di Dschoint Ventschr Filmproduktion, quindi era coinvolta la televisione SRG-SSR svizzera e si percepiva l’energia sprigionata dall’incontro con questi interlocutori esteri e l’importanza di far parte di un progetto che avesse un respiro internazionale. Ci torneremo di sicuro più avanti, ma è importante rimarcare come, fin dall’inizio, mi sia stata affine questa dimensione che a tratti può essere percepita come esterofila ma che per me è stimolante perché mi dà la percezione di essere nel mondo. Prima di arrivare a tutto ciò, c’è stata la necessità, con Alessandro Rossetto e Alberto Fasulo, di formare un gruppo di lavoro finalizzato alla realizzazione di un progetto che sentissimo “nostro”, e quel film sarebbe stato Rumore bianco, il primo film che ho firmato da produttore con una società, FaberFilm, di cui facevo parte. Gli esperimenti realizzati in precedenza si erano rivelati spesso oggetti poco “precisi” invece, con Rumore bianco, c’è stata una chiara assunzione di responsabilità su di un progetto già delineato un anno e mezzo prima e concretizzatosi nella società che abbiamo poi costituito. E questo ha dato il la alla vita produttiva in senso stretto, con la volontà dichiarata di fare un film collocato geograficamente nell’area del Nord-Est, con l’idea stessa di realizzare un’opera che parlasse di quel territorio.

E con una strategia produttiva altrettanto ben delineata. Infatti, Rumore bianco ha avuto un impatto molto forte dal punto di vista produttivo: in un momento in cui i documentari, in Italia, si facevano unicamente dal basso, con risultati diversi, ma con il punto in comune di essere realizzati con una grande carenza di risorse economiche, questo film è arrivato come un ufo, prodotto da una società nuova che aveva saputo costruire un’architettura di finanziamento specifica in relazione al progetto artistico.

Si, una strategia nata da una pratica di traduzione rispetto al sentimento di identità, di appartenenza al territorio: un’intuizione messa a punto passo dopo passo. Mancando un sostegno nazionale, si scelse di dare alla produzione un impianto locale, collaborando con Comuni e Regioni, e con il successivo intervento di un co-produttore svizzero. È stato un processo di finanziamento molto lungo ma con risultati importanti. Innanzitutto, c’era l’idea di Alberto di raccontare la propria terra partendo dal fiume e quindi ci siamo sforzati di mettere in relazione l’idea artistica e la produzione. Queste due istanze, nel cinema, dovrebbero sempre collaborare, in maniera quasi paritaria, perché c’é un assoluto valore di invenzione anche nella progettazione produttiva del film. E infatti in Rumore bianco fu fatto un lavoro gigantesco, un’opera di tessitura tra realtà molto diverse, con l’idea precisa di collocare il cinema al centro del discorso pubblico. Questo è avvenuto, concretamente, riunendo i quaranta comuni dell’asse del Tagliamento, da Nord a Sud, attraverso l’utilizzo di uno strumento chiamato protocollo d’intesa. Tutti i comuni parteciparono al film con un finanziamento pro-capite, una cifra corrispondente a 0,20 centesimi per cittadino, facendo in modo che il comune più piccolo e il comune più grande potessero sentirsi partecipi in egual misura. Il protocollo d’intesa è uno strumento politico abitualmente attuato per la fornitura di servizi, e invece quella volta fu al servizio del film, in un contesto politico-geografico molto particolare, animato da aspre diatribe territoriali. Noi riuscimmo, in maniera un po’ magica ma anche molto sensata, a sbloccare queste divisioni e a far sì che il cinema diventasse patrimonio della storia del territorio. Ha funzionato, e il film è diventato un caso. Ma è stata soprattutto un’esperienza formativa che mi ha permesso di capire quali sono le potenzialità della produzione, quando sia capace di mettere in circolazione degli oggetti dal profondo valore condiviso.

Questa esperienza legata alla dimensione locale dà subito l’idea di come, dietro ogni tuo film, ci sia un chiaro pensiero produttivo. Penso che la stessa dinamica, con maggior respiro internazionale, si sia replicata ne L’estate di Giacomo di Alessandro Comodin.

Effettivamente sono esperienze simili, ma ci sono arrivato forte di una maggiore consapevolezza. Quell’anno partecipavo al training di Eurodoc, un programma di formazione per produttori europei a cui si accede con un progetto in sviluppo, che nel mio caso era appunto L’estate di Giacomo. Quell’esperienza mi ha permesso di ritrovarmi in un contesto internazionale con una serie di figure professionali di rilievo a supportarmi. Il training del laboratorio si è rapidamente evoluto in lavoro sul film, offrendomi un riscontro diretto da parte di queste figure circa ciò che stavo andando a mettere in atto. Mi ha anche permesso di avere una visione concreta del livello di chi produce oggi in Europa, della soglia di consapevolezza rispetto al produrre, di quali necessità spingano a farlo. E devo dire che in generale il livello non è altissimo, come se non ci fosse sempre un motore, una reale necessità. È difficile spiegarlo, non pretendo certo che i film cambino il mondo in maniera diretta ma, come dice John Berger, l’unica cosa che possiamo fare è metterci molto vicino, accanto, a quello che vogliamo raccontare, e questa vicinanza, molto lentamente, cambia effettivamente le cose, forse in modo definitivo. È proprio questo il senso profondo del mio lavoro, credo che i film che contribuisco a mettere in circolazione creeranno un movimento interessante, che attiene all’idea stessa di sentirsi liberi.

Quando hai capito che Alessandro Comodin sarebbe stata la persona insieme a cui fare questo passo che per te è stato così importante?

L’incontro è avvenuto in due tempi: dapprima attraverso il suo lavoro precedente (il corto Jagdfieber), perché alla fine si tratta di essere in grado di riconoscere, nella visione, un talento, qualcosa che colpisca lo sguardo e abbia delle potenzialità;  in un secondo momento c’è stato il vero e proprio incontro. Alessandro ha una vivacità intellettuale incredibile, concepisce il cinema come un oggetto al contempo leggero e serissimo: vi è da un lato questa dimensione del gioco e dall’altra un’assunzione di responsabilità legata all’atto cinematografico. Ho poi letto il progetto del suo nuovo film e la scrittura potrebbe essere intesa come il terzo momento di questa unione.

Anche lui aveva già una sua dimensione europea.

Alessandro ha studiato a Bruxelles, viveva a Parigi e dunque sì, c’era certamente un percorso comune rispetto a questa necessità di apertura. Questo dato ritorna anche nel caso di Roberto Minervini: sono tutti esuli, o comunque soggetti in continuo movimento. C’è una sana inquietudine che li muove. L’idea di spostarsi è un elemento che attiene molto anche al mio modo di produrre; io mi sposto moltissimo per fare quello che faccio.

Come fai a lavorare con questi registi che vivono all’estero?

Credo che il vero luogo d’incontro sia il cinema che facciamo. Il fatto che Roberto viva negli Stati Uniti e che Alessandro viva a Parigi, rende il film una sorta di spazio mentale, un viaggio da compiere insieme. Ogni lavoro è un processo molto lungo, minimo tre anni dalla primissima concezione alla vera e propria realizzazione. C’è un piacere reciproco nel condividere quel tempo, un rapporto di cura che ha come oggetto il film, un processo condiviso che annulla le distanze. Poi esistono vari strumenti per ovviare alla distanza fisica, da Skype ai viaggi che mi permettono di andare ad osservare la realtà con gli occhi del regista. Ma l’elemento fondamentale resta il film: un film a cui tutti pensiamo, un film ancora da realizzare, che non esiste ancora, ma che ci permette di annullare le distanze grazie al desiderio condiviso di vederlo nascere. È di certo necessaria una grande elasticità, una disposizione naturale a muoversi e a non avere un luogo fisico: io credo di averla, amo muovermi perché ritengo che tutta questa energia cinetica si traduca in energia filmica, si trasmette al film. Credo che sia importante incontrare le persone con cui si lavora, che siano co-produttori o professionalità coinvolte, anche se devo ammettere che raramente si verifica il contrario, cioè che siano gli altri a far visita a me, quindi è probabile che questa mancanza di un luogo fisico sia intrinseca del mio personale modo di lavorare. Forse adesso qualcosa sta cambiando e inizio a riconoscere in Milano la mia geografia specifica, ma il fatto stesso che la sede di Okta sia ancora in Friuli e che abbia operato a lungo a Roma è proprio l’eredità di un passato di continuo movimento. Per me non esiste una città del cinema, il luogo del cinema sono le relazioni, i rapporti con le persone: è lì che si costruisce il cinema che faccio.

A proposito di rapporti, ci sembra abbastanza esemplare quello che tu hai intrecciato con l’Europa. Un vero e proprio percorso virtuoso che parte da esperienze a livello locale e, passando per laboratori formativi e premi nei più importanti festival internazionali, come ad esempio Locarno, ti ha portato ad avere importanti interlocutori europei. Vorresti raccontarci qualcosa di questo tuo percorso?

Di sicuro, come in tutte le cose, c’è una gradualità. Ma si parla in primo luogo di fare scelte ben precise che paghi, e che a loro volta ti ripagano. Ad esempio, nella produzione di un film io non rispondo in alcun modo a regole commerciali e questo lo pago, perché fare cinema richiede tempo e i budget dei film, dei nostri film, non consentono in alcun modo di ripagare il tempo investito nella loro realizzazione: questo è per me ancora un grandissimo nodo irrisolto perché da un punto di vista meramente economico implica una perdita costante, nella produzione del film non vi è una correlazione diretta tra tempo di lavoro e guadagno. D’altra parte questa scelta di campo, di occuparsi di un certo tipo di cinema che non risponda a delle regole commerciali, ripaga con una credibilità crescente a livello nazionale ed internazionale. L’estate di Giacomo, vincitore del Pardo d’oro – Cineasti del presente a Locarno, ma anche Redemption di Miguel Gomes (2013), sebbene sia un film molto piccolo, rappresentano passaggi di questa crescita. È tutto collegato, ci sono fili che attraversano e tengono uniti i lavori, non solo perché ci sono persone che ci lavorano ma anche perché i film stessi, nel loro viaggio, incontrano la sensibilità di nuove persone, parlano a sempre nuovi interlocutori e dunque schiudono delle porte. Ogni film è un tassello, la tappa di un percorso. Il fatto stesso di aver vinto Locarno ha delle implicazioni maggiori rispetto al premio in sé: il festival, infatti, era diretto all’epoca da Olivier Père che è poi diventato il Direttore generale di Arte France, con cui abbiamo in seguito collaborato per la realizzazione del film successivo di Alessandro, I tempi felici verranno presto. È un dato apparentemente casuale ma, d’altro canto, la dice lunga tanto sull’importanza del circuito festivaliero quanto sul valore ancor più cruciale delle relazioni di stima e di fiducia che si vengono ad intrecciare grazie alla produzione di un lavoro di un certo tipo. A livello europeo, l’importanza del film, e cioè la qualità del progetto, resta cruciale, ma è altrettanto importante la presenza di figure produttive che diano garanzie, la cui storia ne certifichi la serietà e la credibilità. Credo che questa filosofia sia la base di un lavoro di respiro internazionale.

Qual è il tuo rapporto con la realtà italiana, da Rai Cinema al complesso sistema distributivo per far arrivare i film sul nostro territorio?

Il cinema a cui lavoro non è un cinema nazionale: è di tutti. Rompe le relazioni di potere poiché la natura stessa dei nostri film impedisce a chiunque di arrogarsi la proprietà dell’oggetto filmico. Questo ha un effetto sul coinvolgimento dei partner produttivi perché, ancora una volta, torna l’elemento di grandissima libertà che questi film hanno. La diversità galvanizza e l’assenza di una funzionalità, di un interesse strettamente commerciale, accentua il valore artistico del film. Secondo me, in un momento in cui tutto è a pezzi, è giusto proporre qualcosa di profondamente coerente, un cinema che sappia tenere insieme la dimensione artistica, creativa, politica, economico-finanziaria e che indichi una direzione chiara per il futuro. Facciamo film spiazzanti, e questo si ricongiunge al concetto di movimento a cui sono legato. Sarei molto felice se in Italia ci fossero tante persone impegnate a fare lo stesso tipo di cinema che faccio io! Mi piacerebbe vederne di più perché, a catena, avrebbe un effetto anche sulla distribuzione. Anche la relazione con la Rai si è costruita col tempo. Questo è il lavoro, c’è una gradualità. Il senso di quello che io faccio, in maniera un po’ gramsciana, è quello di creare gli spazi. In questo sono davvero molto laico: i film si fanno con le persone che vogliono farli. Il fatto che ci siano organismi, istituzioni, pubblici o privati che hanno del denaro non significa che ci sia un dovere da parte di essi di partecipare al film. La storia dei film è fatta anche da questi incontri, dal riconoscere e riconoscersi, e non ci sono automatismi; tutta l’invenzione di cui parlavo prima è costante, sempre. Certamente si costruiscono dei rapporti, se ci si riconosce è perché si parla una lingua comune e si condivide la necessità di mettere in circolazione delle cose che entrambi riconosciamo valide.

Ogni tuo film è una sfida, ma lo è altrettanto cercare di raggiungere il pubblico. Anche se penso che siano dei film che possano arrivare a tutti a livello comunicativo, paradossalmente il sistema in Italia è talmente proibitivo e frammentario che per un film non è scontato ottenere una distribuzione.

Qualcosa si muove, ma c’è ancora strada da fare. I riconoscimenti internazionali, come la selezione a Cannes di I tempi felici verranno presto, sono le prime tappe di un percorso che facilita la diffusione. Ma niente è automatico, scontato. Le difficoltà sono numerose, non solo in ambito cinematografico ma a livello politico-culturale in senso lato, quindi, ciò che noi misuriamo nel nostro campo fa parte dello stato delle cose di un Paese al cui interno ci sono fortunatamente delle forze attive. Si può sicuramente fare di più. Forse, ci vorrebbe più coraggio, si potrebbero rompere alcune logiche che sono state prevalenti fino ad oggi, perché davvero là fuori c’è qualcuno che ha voglia di vedere altro. Il mio ruolo è quello di continuare a credere in questi film; il fatto che il nuovo film di Alessandro Comodin sia maggioritario italiano significa essere riusciti a fare un passo in avanti. Sono delle piccole avanguardie che devono riuscire a portarsi dietro altro. Ovviamente ci sono altre persone che fanno questo tipo di lavoro quindi, secondo me, nel tempo questa attività potrà e dovrà dare dei risultati.

Qual è, secondo te, il ruolo che dovrebbe avere la critica, in questo scenario?

Il sistema non è solo quello che finanzia i film: ci sono un insieme di figure che hanno delle responsabilità diverse, che insieme concorrono a riconoscere e garantire la libertà del cinema. Quando parlo di noi come di un’avanguardia non intendo dire che siamo avanti agli altri, ma spesso provo una sensazione di isolamento, come se il lavoro che facciamo non incontri persone pronte a leggere questo dato di novità, che sappiano sottolineare, riconoscere l’importanza degli elementi in gioco, persone che in qualche modo creino intorno ai film quello che io da produttore non posso creare: un tessuto storico e concettuale. Noi i film li facciamo, li mandiamo nel mondo. Ma lì, essi devono trovare dei compagni di avventura, una guida, e la critica dovrebbe assurgere a questo ruolo.  Ciò che mi muove, è il tentativo di realizzare qualcosa che abbia la forza di inserirsi nella storia; forse è presunzione, ma è davvero l’unica che mi concedo: credo nei film che si piantano nel tempo, come dei paletti, e so che contribuisco a realizzare delle opere che rimarranno, che sapranno andare oltre il tempo, che in qualche modo staranno davvero in relazione con la storia, con ciò che li precede e ciò che li seguirà.