C’è una questione fondamentale su cui far chiarezza, a vent’anni di distanza dall’apparizione dello stile dei Dardenne, così come lo conosciamo. Quel tocco che rese – in un’epoca ancora estranea alla fascinazione per il cinema documentario – i loro film “più veri del vero”, grazie a un sapiente dosaggio di attori non professionisti, uso della camera a spalla, estraneità del suono extradiegetico, ha solo apparentemente a che vedere con il realismo cinematografico (mal compreso dai loro epigoni, che siano Giovannesi di Fiore o Brizé de La legge del mercato) e fonda invece la propria forza eversiva nell’essere un cinema dialettico, in cui gli attanti del discorso si confrontano in un percorso cognitivo che diventa narrazione. E se i volti e le ambientazioni ritornano di film in film, nel cinema dei due fratelli a cambiare è proprio l’essenza del linguaggio che svela sempre di più la propria matrice: tanto da far pensare che il loro cammino, attraverso opere più o meno riuscite, sia proprio progressivamente volto al manifestarsi di questa componente “fredda” – meno evidente agli inizi e sempre più palese negli ultimi. Grazie al loro amore per Brecht, nonostante abbiano informato il cinema d’autore del presente, i Dardenne continuano a battere una strada per pochi.

La ragazza senza nome, forse la loro opera meno compatta (tanto da tornare in sala di montaggio dopo la proiezione ufficiale a Cannes per toglierne ben 7 minuti), è una sorta di anti La Promesse: se nel film che li ha resi noti al pubblico dei festival era uno straniero a offrire un dono (la promessa del titolo) capace di innescare un processo di crescita etica nel piccolo protagonista, stavolta è la decisione di una giovane dottoressa di non aprire una porta (e di conseguenza non accogliere un segreto e salvare una vita) a rivelare al personaggio il proprio atteggiamento di rifiuto e distacco riflesso negli altri. Come spesso accade, non è l’indagine attorno al nome della ragazza uccisa ad essere così rilevante, bensì – in questo film popolato da numerosi personaggi – diventano fondamentali alcuni indizi: quelli che mostrano una gioventù europea malata e sola, abbandonata dai padri che sono i protagonisti del trauma che blocca i figli (non a caso il film si apre con una scena che è l’incubo di un giovane uomo chiamato a prendere tra le mani il proprio futuro) e ancorata al lavoro come unica realizzazione del sé.

Sviluppato per mezzo di ripetute scene di confronto tra la determinata dottoressa Jenny e le persone coinvolte nella sua inchiesta privata (il nuovo montaggio è proprio volto a chiudere il film attorno a questo continuo e ricercato confronto), La ragazza senza nome è costruito come un racconto morale in cui il progressivo svelamento della verità (sulla ragazza, ma soprattutto su se stessi) avviene nella ricerca della frontalità dello sguardo, e di un controcampo, in una società in cui il contatto umano è programmaticamente tenuto a distanza. Gli affari sporchi di ciascuno non sono unicamente una piaga sociale, non riguardano solo la droga, la prostituzione, il deposito illegale, ma anche un’altra dimensione, quella più intima e insondabile. Perché in questo film, quando tutto sembra risolto per il meglio e le condizioni sociali sembrano giustificare qualsiasi gesto, è ancora una volta una straniera ad allargare il discorso e radicalizzarlo. Quei sentimenti, insondabili per la medicina (e per Jenny da tenere distanti dalla propria professione), sono in realtà il mistero che ci unisce e ci separa, a cui ritornare per essere di nuovo capaci di accogliere l’altro e lottare in suo nome. La cura di Jenny ha a che fare proprio con questa prossimità, con il braccio offerto all’anziana nel finale, in una storia che si chiude su un nuovo ritorno alla quotidianità.

Il rapporto con l’altro, da sempre al centro della riflessione dei due cineasti belgi, sembra qui arrivato a un grado zero: se Rosetta era talmente assorbita dalla ricerca di un lavoro da non ammettere nessuno nel suo orizzonte, Jenny e i suoi pazienti riempiono drammaticamente lo stesso spazio nel loro essere incapaci di costruire un rapporto. È evidente che la statuaria dottoressa (interpretata da una Adèle Haenel, che resta modello non piegandosi mai al naturalismo) cerca se stessa in ogni confronto con i suoi pazienti, applicando una dinamica di specchio che – nonostante liberi delle forze – costringe lo spettatore in inquadrature se non fisse, almeno stabili, in cui i dialoghi tra i personaggi avvengono in campo medio. Jenny è il fulcro attorno al quale oscilla l’inquadratura, che sarà libera di attraversare uno spazio, quello della profonda connessione che lega un volto all’altro, solo nel dialogo finale, momento rivelatorio non tanto ai fini “morali”, quanto per tornare a confrontarsi con l’altro (vero fuoricampo del film) in un’opera che prova prima di tutto a parlare di noi. Impariamo a guardare e, forse, sapremo come vivere.