L’economia di coppia: è tutto racchiuso nel titolo originale il senso dell’ultima pellicola di Joachim Lafosse, che, come in Proprietà privata, torna a raccontare l’inestricabile legame tra la verità dei sentimenti e l’implacabile prassi della routine quotidiana. Qual è oggi, il vero terreno di scontro nelle relazioni affettive? Su cosa si costruisce la negoziazione che può consentire a un nucleo familiare di formarsi e andare avanti? Lafosse suggerisce quello che difficilmente ammetteremmo, costruendo un intero mélo sul diverbio intorno alla proprietà di una casa. Una splendida casa: lei, Marie, l’ha acquistata da sola, sostenendo un mutuo da 140.000 euro per quindici anni. Lui, Boris, invece, ha pensato alla veste architettonica e all’arredamento, rendendola una splendida dimora da rivista. A chi vanno riconosciuti i meriti? Chi ha il diritto di essere definito proprietario, e chi semplice inquilino? La questione si allarga a macchia d’olio e in maniera implicita alle figlie, due gemelline identiche e inseparabili, su cui la coppia, in via di separazione, esercita le proprie involontarie pressioni psicologiche.

Eppure, lo scarto che fa di Dopo l’amore un film in tutto e per tutto calato nella contemporaneità, è proprio il fatto che la questione materiale non abbia valore metaforico: anzi, è esattamente quest’ultima il punto di non ritorno della coppia, il nodo traumatico su cui Marie e Boris non riescono a trovare un accordo, e che li costringe a ingaggiare una vera e propria guerra. Nel gioco al massacro che prende avvio dalla definizione del proprio tempo affettivo (“Tu hai i tuoi giorni, io i miei”), Lafosse rifiuta di assumere completamente il punto di vista di un personaggio, ma osserva la famiglia nel suo complesso e nella sua complessità. Enfatizzando, soprattutto, la reazione a discapito dell’azione: l’occhio è sempre puntato sul volto di chi subisce e si prepara a un nuovo attacco, oppure sull’espressione di chi abbozza per stanchezza o per troppo dolore. Perché nella separazione, e in questa forma vicaria di coabitazione, è molto più semplice accordarsi su dimensioni astratte come il tempo e lo spazio, piuttosto che sulla concretezza del denaro e dei beni materiali. Se la separazione del tempo è stata introiettata persino dalle bambine (“Lui ha i suoi giorni, lei i suoi”), più diligenti di Boris nell’adeguarsi alle regole della nuova convivenza, quella dello spazio viene ugualmente rispettata, con una sorta di spartizione delle stanze tra Marie e Boris. Al contrario, è il fattore economico a innescare i conflitti più feroci, e a spingere i protagonisti a livelli di bassezza tali da far loro temere di perdere completamente il controllo. Come Marie, che arriva a impedire all’ex di mangiare il formaggio destinato alle figlie, o come Boris, che non riesce ad acquistare le scarpe da calcio per la figlia.

La teatralità della messa in scena, completamente giocata tra le mura domestiche, non vuol essere un semplice esercizio di stile o un saggio di virtuosismo. Al contrario, l’unità scenica ci dice che la casa non è un semplice pretesto narrativo e scenografico, ma è una sorta di incubatore di ricordi e di testimonianze di una relazione ormai al capolinea. Si veda, ad esempio, l’esordio del film, dove la macchina da presa attende rigorosamente all’interno delle mura l’arrivo dei primi personaggi, Marie e le bambine: sembra quasi che l’occhio che osserva la scena appartenga alla casa stessa. O, ancora, si pensi al gioco di disvelamenti che inizia con l’entrata in scena di Boris: questi viene visto prima da Marie e, solo in un secondo momento, dopo una lenta panoramica, anche dalla cinepresa e da noi spettatori. Non c’è mai una verità data nella sua completezza allo spettatore: al contrario, la narrazione procede tra impressioni, frammenti ripetitivi e difficoltà a mettere a fuoco l’immagine e il groviglio di sentimenti in gioco.

Per una casa che non si riesce a dividere, ce n’è poi sempre un’altra che rischia di diventare un nuovo terreno di scontro: la madre di Marie vuole infatti che la casa del marito venga ristrutturata sempre da Boris, che così potrà guadagnare qualche soldo. Ma questo significherebbe, ancora una volta, legare affetti e immobili, e creare così nuovi focolai di guerra. Nell’economia di coppia, ci dice dunque Lafosse, i conti sono destinati a non tornare. O meglio, per farli tornare è necessario ricorrere alla simulazione e al gioco dei ruoli, usare la preparazione di una cena o di un bagno come feticcio per raccontarsi che nulla è cambiato. C’è un solo momento in cui il gioco è talmente sfacciato da sembrare realtà: le gemelle, con la loro somiglianza fusionale, ricordano a Marie e a Boris la bellezza dell’unità che hanno formato. Sulle note di Bella di Maître Gims, la famiglia ritrova per qualche istante il proprio passo, dimenticando le recriminazioni. Ma è proprio il ricordo di quell’unità a risultare insostenibile nel presente, e a ferire più dei dispetti e degli sgarbi reciproci. La casa, la vera protagonista di Dopo l’amore, è un progetto nato, cresciuto e poi abortito. È una vita che non si riesce più a condividere per l’incapacità di guardarsi quando si occupa la stessa stanza. Per questo, l’accordo, il riconoscersi come persone oltre che come ex, non può che avvenire al di fuori del domicilio coniugale. In un tribunale o in un bar. Lontano dai rumori di una felicità condivisa.