Re:Voir è una società d’edizione che ha per vocazione la diffusione in DVD del cinema sperimentale con una predilezione per il surrealismo, l’avanguardia americana e il journal filmé. Nell’aprile 2016 Re:Voir edita un cofanetto in Dvd che racchiude Les Quatre Saisons di Marcel Hanoun, tetralogia concepita in quattro capitoli, ognuno dei quali, va da sé, è dedicato a una delle quattro stagioni. Si parte da L’Été girato nel 1968, cui seguono in ordine cronologico, L’Hiver (1969), Le Printemps (1970) e L’Automne (1971-72).

Marcel Hanoun nasce a Tunisi nel 1933, alla fine della guerra si trasferisce a Parigi dove, dopo una breve carriera come giornalista televisivo e fotografo, intraprende da autodidatta la strada del cinema. Coerentemente con la sua visione del cinema, il lavoro di critico e teorico vanno in parallelo a quello di cineasta. Stroncato dai circuiti commerciali che ritenevano il suo linguaggio inaccessibile e intellettualistico, quindi poco vendibile, Hanoun, malgrado le difficoltà con i critici e con un pubblico che non riusciva ad affezionarsi alla sua poetica, continuerà – e senza interruzioni – a consacrare la sua mente al cinema e alla video arte fino alla morte a Créteil nel 2012.

Per Marcel Hanoun « la visione è uno stato mentale », la sua è una risposta chiara a quanti si siano limitati a definire il suo cinema come un tripudio di intellettualismo ed ermetismo. Hanoun rivendica invece la purezza e la semplicità dei suoi film; partendo allora dal presupposto della visione come stato mentale, si potrebbe aggiungere che anche la ricezione è uno stato mentale, ed è quindi intimamente connessa alla disposizione del singolo spettatore: coloro che hanno parlato di ermetismo e di intellettualismo hanno quindi denunciato il pressappochismo della loro fruizione. Cosciente di essere un cineasta marginale e sconosciuto anche dai più illuminati, il suo linguaggio visivo sembra tuttavia dialogare con le preoccupazioni di Garrel, Godard e Duras, suoi contemporanei più noti. Con il primo condivide l’analisi del linguaggio cinematografico, una critica acuta e inesauribile dell’immagine e del suono nonché una profonda consapevolezza delle potenzialità offerte dal montaggio. Vicino a Garrel sia politicamente sia per la competente autobiografica che si fa sentire nella scelta di affidare a Michael Lonsdale, in tre delle quattro stagioni, il ruolo di Julien, regista e alter-ego dello stesso Hanoun. E ancora, la parentela con una delle più controverse e affascinanti donne del secolo scorso: lo scarto temporale tra immagine e parola, la convinzione, esposta in Les Yeux Verts, che il pubblico debba avere un ruolo attivo e non passivo, l’utilizzo dello schermo nero, quello che Duras ha definito le film sans image, il ricorso a diverse forme di dissociazione (immagini senza voce, voci senza corpo).

Come già accennato, la carriera di Hanoun è tutt’altro che sterile; girerà ininterrottamente dal 1958 al 2012 confidando che il suo sia un cinema classico e destinato a durare, contrariamente a molti fenomeni del momento: i film di gangsters denunciati da Lonsdale durante l’esposizione della sua ars poetica in L’Automne sono solo prodotti di consumo, generati dalla mitologia dell’epoca. La sua fiducia in un riconoscimento dai posteri è totale: « Je suis pour l’instant méconnu mais ce que je fais a un sens durable, un sens classique, un sens qui finira, je l’espère, pour ne pas échapper » (Per il momento sono sconosciuto, ma quello che faccio ha un senso destinato a durare, un senso classico, un senso che, mi auguro, non sfuggirà). Dominique Noguez, fra i primi a esaltare la singolare bellezza dei suoi film, lo definisce un esploratore che con pochi mezzi è riuscito a creare dei capolavori destinati a entrare nella storia del cinema servendosi di un modus operandi vicino al filone del Nouveau Roman (Grillet, Butor, Sarraute) dove il primato va più al modo di enunciare che all’enunciato tout court.

La tetralogia si apre con L’Été, girato in sette giorni, a soli due mesi dagli avvenimenti di maggio ’68. Lontano dall’essere una cronologia delle contestazioni studentesche, lontano dall’esaltazione di ideali per Hanoun già morti e da quelle produzioni tanto militanti quanto utopiche (L’une chante l’autre pas (1977) di Agnès Varda, L’an 01 (1973) di Jacques Doillon), L’Été preferisce analizzarli con quella distanza che è uno dei pilastri della sua poetica. Una tesi sostenuta con lucidità obiettiva ma capace sopratutto di mettere in causa l’altro registrando su pellicola il proprio mea culpa: l’esperienza sessantottina è già conclusa, la libertà sta anche nel saper riconoscere l’inconsistenza dei propri piani d’azione. Nonostante l’apparente calma, il contesto quasi bucolico, la routine ordinaria che ricorda un po’ la futura claustrofobia domestica di Jeanne Dielmann (da non sottovalutare forse l’impronta di Babette Mangolte, che farà d’assistente ad Hanoun ne Les Quatres Saisons, e in seguito lavorerà con Chantal Akerman come direttrice della fotografia), L’Été è senza dubbio il più violento dei film della tetralogia. Il suo impatto sull’audience, spietato: Hanoun racconta che la visione alla sua uscita suscitò non poca irritazione nel pubblico, perché mira dritto al cuore delle rivendicazioni attraverso una riflessione cruda, ironica e disincantata che demistifica le modalità spettacolari del movimento studentesco. Gli slogan messi a nudo, privi di senso, sono ormai archivi del passato, sfilano in un carosello fotografico che fa pensare a Chris Marker e al suo utilizzo del montato di immagini fisse: questa sottile ironia colpisce profondamente il pubblico ancora effervescente per le “conquiste” raggiunte. Graziella, interpretata da Gabriella Buci, è il tramite che mette in relazione il passato prossimo con il presente. Reclusa in una casa di campagna in Normandia a 140 km dalla capitale, riveste un ruolo duplice: metà cronachista della propria partecipazione alle mobilitazioni studentesche, metà uditrice impotente delle notizie diffuse dalla radio: la secessione del Biafra, il Vietnam, l’invasione sovietica di Praga. La sua voce, rigorosamente fuoricampo, rilegge le lettere che raccontano il suo soggiorno estivo a Marianne, un’amica tedesca. Le loro voci si sovrappongono, talvolta è Graziella a recitarle, talvolta è Marianne a ripeterne delle parti con il suo accento tedesco.

In una di queste confessa « Ho appeso al muro le foto di Jean-Luc », fotografie scattate dal suo ex-compagno che la ritraggono in posa accanto agli slogan rivoluzionari scritti sui muri di Parigi. Fra questi ritorna con insistenza uno in particolare « Qui crée? Pour qui? » (Chi crea? Per chi?), emblematico in quanto sembra racchiudere in sé la problematica principale dell’autore. Graziella utilizza il verbo épingler, in italiano letteralmente appuntare, la cui radice è la stessa di épingle, cioè spillo, sua intenzione è quella di riporre sullo scaffale il vissuto recente, assimilarlo al ricordo di qualcosa che è stato e che ora non è più. Il gesto di attaccare le fotografie sul muro rappresenta quindi la volontà di mettere un punto, distaccarsi definitivamente dalla breve parentesi rivoluzionaria. Agli avvenimenti di maggio si aggiunge la fine di una storia d’amore, espediente narrativo che spiega l’isolamento volontario in campagna. Si tratta di Jean-Luc che più volte scompare per poi riapparire brevemente sullo schermo come fantasma e proiezione mentale di Graziella che vagheggia su un suo possibile ritorno. Le giornate di Graziella si succedono l’una dopo l’altra come un rituale rigoroso: una tazza di the e una sigaretta al mattino, il pomeriggio invece è dedicato alla lettura e alla scrittura a macchina; di tanto in tanto la vediamo concedersi una corsa tra i campi o una visita nella fattoria dei vicini. In una delle missive la ragazza confida a Marianne di aver portato con sé più vestiti e più scarpe del necessario, peraltro inadatte alla campagna, in un’altra invece, di non sapersi sbarazzare dalle proprie abitudini borghesi. Se Graziella è un prototipo della sua generazione, la sua autocritica illustra che infondo quelli che hanno fatto la rivoluzione a maggio sono solo dei piccolo-borghesi incapaci di rinunciare al proprio tenore di vita. Seguendo quest’ipotesi le scene in cui corre nuda tra i campi sono da intendersi non tanto come un’allusione alla libertà sessuale quanto più il tentativo ingenuo e fugace di ricongiungersi con la natura. Il sonoro, leggermente sfasato rispetto alle immagini, conferma talvolta le congetture possibili: in seguito la voce fuori campo rivela di passare il tempo a correre tra i campi, ad arrampicarsi sugli alberi per cogliere le mele che le ricordano quelle delle nonna, di aver ritrovato così la propria infanzia. Lo stesso procedimento è utilizzato con gli slogan, che in un primo mento si succedono muti sullo schermo, e solo in seguito sono ripetuti dalle voci fuori campo, come un’eco inconsistente; chi ha registrato quelle immagini precedentemente non ha più bisogno di appigliarsi a un riferimento iconografico; gli slogan, privi della loro materialità, si dissolvono in un’eco ormai lontano.

Nel film è presente anche il tema della solitudine e del desiderio. A suggerirlo è la prossimità della macchina da presa al corpo di Graziella, ripreso nudo da più angolature, come in posa davanti all’obiettivo di Jean-Luc. Ma anche il sonoro, quando ad esempio la mano stringe il lenzuolo per un orgasmo, quella stretta traboccante di sensualità si ricollega al respiro estasiato e poi a una lettera in cui confessa di aver sognato di fare l’amore con Jean-Luc. Frammenti visivi di un discorso amoroso: la solitudine del soggetto amante, l’impassibile attesa di un ritorno, il ricordo malinconico di un amore rievocato dalle poesie di Paul Eluard. Citazioni dense, tragiche e strazianti che si fondono con l’immagine: il riflesso di Graziella nella finestra, il suo sguardo assorto sulla campagna, la sua presenza morbosa nelle fotografie attaccate alle pareti. Paul Eluard: « Mes yeux horriblement ne voient pas plus loin que moi » (D’un tratto orribilmente i miei occhi non vedono più lontano di me), Heinrich Von Kleist: « La vérité c’est que sur cette terre nul ne pouvait me venir en aide» (La verità è che su questa terra nessuno poteva venirmi in aiuto). Slogan del ’68: « Le reflet de la vie n’est que la transparence du vécu » (Il riflesso della vita è la trasparenza del vissuto). René Char: « La lucidité est la blessure la plus proche du soleil » (La lucidità è la ferita più vicina al sole).

Nel cinema di Hanoun la bellezza non è contemplazione estetica; la poesia, l’arte, la musica fanno da sostegno alla sua riflessione politica. Così i versi, gli autori, le referenze pittoriche e musicali a cui ricorre e a cui ricorrerà negli altri film della trilogia non vanno intesi come celebrazione di un vuoto eruditismo. Questa lucidità è la stessa che gli fa constatare con amarezza la guerra del Vietnam, la secessione del Biafra e l’invasione sovietica di Praga. Le notizie diffuse dalla radio vengono in seguito riassunte da una voce fuori campo asettica e monotona come una lista di orrori svuotata di immagini. Morire di fame, colpi di mitra, il ticchettio della macchina da scrivere si aggiunge agli spari, il bisogno di ricopiare un articolo sul Biafra. L’impotenza dell’individuo, la morte dell’utopia collettivista.

Due fotografie montate come un campo contro-campo ritornano più volte e per tutto il film con la velocità di un’istantanea; al campo, raffigurante un poliziotto sul punto di caricare con un manganello, fa da contro-campo uno studente che sta scivolando a terra, appena colpito alle spalle. Questo, l’unico riferimento visivo agli scontri di maggio. Immagine fantasma che oltre a evocare il fallimento del movimento studentesco apre una riflessione sulla distanza necessaria per l’analisi dell’immagine. Immobile, bloccata, chiusa in sé stessa. Fotografia d’archivio, come a voler estirpare la tentazione di immedesimazione, di condivisione di un sentimento. Una sequenza che potrebbe essere accompagnata dal verso di René Char, citato poc’anzi, « La lucidità è la ferita più vicina al sole ».

Il montaggio veloce, i cui raccordi si susseguono eludendo ogni possibilità di continuità e naturalezza sono una scelta programmatica conforme alle teorie di Hanoun che, disseminando immagini e suoni frammentati dalle molteplici possibilità di intersezione, ambisce a rendere il pubblico partecipe del processo di creazione. Allo spettatore coinvolto spetta quindi il compito di individuare una logica di continuità vicina a una partitura fatta di rimandi, contrappunti, combinazioni e ritorni. D’altronde la conferma viene dalla partizione sonora del film, costellato quasi ininterrottamente dalle musiche di Monteverdi, Bach, Vivaldi, Liszt, per citarne alcuni. L’Été inaugura una riflessione sul linguaggio cinematografico; studio che, non riducibile a componente secondaria, costituirà il soggetto stesso dei film successivi. Un tipo di cinema a cui interessa poco raccontare un aneddoto o una storia, come affermerà Julien, suo alter-ego in L’Automne; la sua massima aspirazione è fare un film che si avvicini il più possibile al libro sul niente – teorizzato da Flaubert: « Un libro senza oggetto e che starebbe in piedi grazie alla sola forza interna del suo stile, come la terra si mantiene nello spazio senza supporto. »

L’Hiver (1969) si presenta come la storia di un regista che a Bruges gira un documentario commissionatogli da un produttore – ritratto delle esigenze del mercato cinematografico – ma che sogna di realizzare un capolavoro tratto dall’Amleto di Shakespeare o dal Lorenzaccio di Musset. La macchina da presa lo riprende spesso nella stanza dell’albergo – sorta di kabinett mentale dell’artista – assorto nella lettura di alcuni passi delle due opere. La camera da letto, luogo che ritorna spesso ne Le Quatre Saisons, ascetica e austera, consente ad Hanoun di minimizzare l’attenzione sulle immagini e di conferire la giusta risonanza alla parola, trasformandola così in un palcoscenico cangiante dove si recitano drammi intimisti. Come L’Été, la funzione del montaggio è fondamentale, Hanoun afferma in un’intervista che un film si costruisce soprattutto durante il montaggio; in questa fase il regista non manipola la natura delle immagini del girato ma, dove è possibile, crea nuove relazioni, intrecciando immagine e suono. Dopo i titoli di testa, la voce di Hanoun riferisce che il film è costruito come una fuga musicale. Aldilà delle musiche di Bach e Monteverdi, sono presenti variazioni pittoriche, inserti e ritorni sonori, passaggi discontinui dal bianco e nero al colore, irriducibili a ripartizioni nette tanto sembrano insinuarsi l’uno nell’altro.

Come incipit de L’Hiver, Hanoun sceglie una terzina estratta dal tredicesimo canto del Paradiso; San Tommaso si rivolge a Dante, incitandolo ad aprire gli occhi dell’intelletto se dalle sue parole vorrà trarre conferma della propria fede: « Ora apri gli occhi a quel, ch’io ti rispondo / E vedrai lo tuo credere e ‘l mio dire / Nel vero farsi, come centro in tondo ». A mo’ di captatio benevolentiae, Hanoun esorta il pubblico ad aguzzare la vista se mira a penetrare in profondità nel film. Lasciandolo libero di scegliere la postura che più gli conviene, lo incita ad affrontare il tête à tête se vuole riuscire a vedere tra i canali, le vedute e i ponti di Bruges il riflesso di sé stesso e della sua interiorità, a condizione di mettersi a nudo come Julien nella sua camera d’albergo. Un’impenetrabilità a primo impatto voluta, come denota la recitazione degli attori che mette volontariamente a disagio lo spettatore per spingerlo alla riflessione e a far sì che il singolo viva l’esperienza del proprio film interiore sulla base del dramma della voce di Julien e, grazie a questa, a porsi degli interrogativi su stesso, la creazione e il mondo.

L’Hiver è una composizione politematica che, oltre ad affermare l’autonomia del cinema – inteso come un linguaggio in sé – dall’aneddoto, è un omaggio poetico-visivo alla città di Bruges e alla pittura fiamminga. È un monologo interiore di un uomo diviso tra il lavoro, le sue frustrazioni, i progetti futuri e la vita privata, una relazione in crisi, Sophie, la sua compagna che soffre della sua assenza. Ma, a livello più profondo, è da notare anche la riflessione sulla consistenza dell’immagine e sulla rappresentazione della realtà. Sensibile alle preoccupazioni artistiche di Magritte, Hanoun declina la realtà in quanto registrazione (il travelling della macchina da presa sull’albero), riflesso (lo stesso albero riflesso nell’acqua del fiume) e copia (da una prospettiva più lontana l’albero e il ponte infine dipinti su tela da un peintre du dimanche), considerando anche, in senso più ampio, il rapporto tra realtà e immaginazione.

L’abilità del cineasta è nella capacità di mantenere una struttura lineare e onnicomprensiva di tutti questi elementi inscindibili l’uno dall’altro in appena 80 minuti e disponendo di mezzi limitati. Giocando con le proporzioni, Hanoun mescola le carte per stimolare lo sguardo a comporre, a suo piacimento, il proprio tableau: è il caso della panoramica dall’alto su Bruges che assomiglia a un modellino in scala delle dimensioni del reliquiario di Sant’Orsola di Hans Memling, le cui inquadrature, all’inizio del film, fanno parte del documentario che Julien sta realizzando a Bruges. Noguez, scrivendo del successivo L’Automne (1971), riprenderà non senza ironia uno dei giochi di parole tanto in voga tra Lacan e gli intellettuali dell’epoca: isolando la radice auto- da automne, avanza l’idea di un cinema autista e autoreferenziale più che autobiografico, sebbene all’origine del plot vi sia un evento del vissuto dell’autore. Suggestione brillante quella di Noguez, pertinente non solo a L’Automne ma anche a L’Hiver perché la cinepresa, una 16mm, è presente continuamente sulla pellicola, da sola come soggetto tout court, occupante tutto il campo, o come strumento di ripresa nelle mani dell’operatore che filma le scene a colori, corrispondenti in parte al documentario di Julien; e da intendere forse, in virtù della devozione assoluta di Hanoun alla settima arte, più una sua protesi che un oggetto inanimato.

Tuttavia il momento in cui il discorso sull’autoreferenza sembra essere più azzeccato è racchiuso nella scena finale, costruita come una tautologia. Julien seduto in auto, guarda dal finestrino la troupe intenta a riprendere il bacio finale che sembra ricongiungere la coppia in crisi, diventando così spettatore di sé stesso. La presenza del doppio campo visivo, il primo occupato da Julien spettatore e contenente il secondo che raffigura Julien nel ruolo di attore, porta il pubblico alla constatazione che, in fin dei conti, Hanoun non ha fatto altro che parlarci del cinema in sé dal principio del film. Spettatore di una duplice messa in scena, trompe l’oeil memore delle tele di Magritte, il pubblico guarda un regista assistere alle ripetizioni di una scena di cui è il protagonista e l’autore. Ciò è possibile perché nel film di Hanoun, Julien, personaggio principale, è un regista, occupato nello stesso tempo a lavorare sul documentario di Bruges e a vagheggiare sul film che vorrebbe realizzare – a partire dall’Amleto o dal Lorenzaccio. Film tutto interiore, che nel suo inconscio si confonde con la storia della sua relazione in crisi e a cui Hanoun dà consistenza materiale sovrapponendo alle sequenze de L’Hiver, il “suo” film, quelle mentali del suo alter-ego. In questo modo Hanoun libera il pubblico dalla schiavitù dell’azione e dell’immedesimazione passiva, sostituendovi l’invito a un’analisi critica delle potenzialità del medium cinematografico.

Le Printemps (1970), terzo capitolo della tetralogia di Hanoun, è frutto della collaborazione con Catherine Binet, compagna di Georges Perec, sceneggiatrice e regista de Les Jeux de la comtesse Dolingen der Gratz (1981), film onirico, di una sensualità gotica e visionaria, conosciuto purtroppo solo tra gli adepti del cinema underground. Attraverso un montaggio frammentario che ricorre ampiamente all’utilizzo del flashback, Le Printemps si impregna, grazie all’apporto di Catherine Binet, di una forma non esente dall’influenza del surrealismo e del cinema femminista d’avanguardia (si pensi a Meshes of the Afternoon di Maya Deren o a Daisies di Věra Chytilová). Il film si concentra infatti su due figure, una maschile e l’altra femminile, che pur estranee sul piano della narrazione e destinate a non incontrarsi mai, sono legate da una relazione latente costruita interamente dal montaggio alternato. Del personaggio maschile, affidato ancora una volta a Michael Lonsdale, si saprà ben poco; è un fuggitivo che vaga nella campagna in uno stato a metà tra il cosciente e l’allucinato. Parallelamente e in contrappunto, si inserisce la storia di una pre-adolescente che vive con la nonna in una cascina solitaria. Anne, il nome della ragazzina, viene colta dalla macchina da presa nelle stesse situazioni che caratterizzavano L’Été. Come aveva fatto con Graziella, Hanoun restituisce sullo schermo una quotidianità silenziosa e ripetitiva, scandita dai ritmi della campagna. Il caffé-latte a colazione, la radio, la lettura e la camera da letto, le passeggiate nella natura. Il tema del rapporto con il sacro è però affrontato in maniera più approfondita rispetto a L’Été, dove vi si allude brevemente quando in soffitta Graziella trova un crocifisso e una pistola giocattolo rovistando in un vecchio baule. In un’intervista Hanoun sembra suggerire che Lonsdale sia il padre della ragazzina e che la loro relazione sottintenda il complesso di Edipo. Tuttavia, nulla vieta di identificare Anne con la donna che accompagna in auto Lonsdale e il cui cadavere nella scena successiva sarà ritrovato da un poliziotto sul bordo di una strada di campagna. L’ipotesi del delitto sembra essere suggerita da un’inquadratura in apertura del film: un piano fisso di un fucile appeso sopra il caminetto della casa della ragazzina, che rievoca tra l’altro la pistola giocattolo trovata nel baule da Graziella in L’Été.

Il più mistico de Les Quatres Saisons, Le Printemps mette in primo piano il rapporto con il sacro e con la religione, come dimostrano d’altronde le numerose citazioni tratte dal Cantico dei Cantici e dal Vangelo, la figura del curato – educatore e fantasma sessuale e paterno – e l’educazione cattolica di Anne. Senza dimenticare il riferimento alle tentazioni di Gesù, incarnato dal fuggitivo che divora un pesce con le mani, come l’allusione alla morte di Cristo, prima preannunciata nelle fotografie montate in sequenza, poi rivelata nel finale dalle stesse immagini, questa volta filmate a 24 fps in cui Lonsdale, colpito da una proiettile, divarica le braccia rievocando la postura del Cristo Crocifisso. Il pesce, oltre ad essere uno degli elementi che congiungono l’uomo alla ragazzina (entrambi spietati: lui lo divora, lei lo uccide volontariamente) simboleggia anche il sacrificio: come accennato, verso la fine del film Anne taglia a metà un pesce rosso con un paio di forbici, gesto che fa pensare a un’ostia spezzata. Dal sacro scaturisce anche la violenza, il peccato, il risveglio dell’erotismo e la perdita dell’innocenza. Anne inizia a provare desiderio per il proprio corpo, si cerca ossessivamente nello specchio, prova a fumare e comincia a mentire. Sorta di iniziazione di un corpo che si trasforma progressivamente, entrando nella pubertà, e come gli indizi disseminati nel film lasciano supporre, corpo di bambina che diventa donna macchiando di sangue la camicia da notte bianca. Ancora una volta Hanoun stimola la mente del pubblico, proponendo uno linguaggio restio alla narrazione tradizionale. Insistendo questa volta su un’architettura più allucinata e, come di consueto, ripartita in un’alternanza di bianco e nero e di colore, e rifiutando schematismi semplici per dare la possibilità di cogliere a proprio piacimento ciò che più risponde alle urgenze del singolo spettatore, ma soprattutto per fargli vivere un’esperienza cinematografica priva di imperativi categorici. Una tesi che Hanoun ricalcherà nel manifesto enunciato da Lonsdale nell’ultima delle quattro stagioni: « La seule libération possible de l’individu est la distance critique » (L’unica liberazione possibile per l’individuo sta nella distanza critica).

Se in L’Hiver Lonsdale, alter-ego del regista, ragiona sulla realizzazione di un film mentre è occupato dalle riprese di un documentario che gli viene commissionato, ne L’Automne, Julien, terminate le riprese del film vagheggiato, è ora alla prese con il montaggio. Il soggetto del film che chiude il ciclo delle stagioni è de facto, il montaggio, per Hanoun la fase più importante e creativa di tutta la produzione. Di nuovo una relazione a due, non meno ambigua delle precedenti. Il regista e la sua assistente Anne rinchiusi in sala di montaggio. Spettatori del film di Julien, Juliette Sacrifiée, di cui oltre al titolo si udiranno stralci della colonna sonora, in seguito un breve dialogo nel quale Juliette confessa di essere incinta e, solo alla fine, una sequenza a colori. Ma Julien e Anne sono prima di tutto spettatori del pubblico, che funziona da contro-campo della coppia ed è spinto a mettersi alla pari del regista e quindi a creare il proprio film, posizionandosi affianco alla coppia dietro il tavolo di montaggio. La macchina da presa, per tutta la durata del film, rimane fissa sui due, ad eccezione delle telefonate con il produttore e il marito di Anne durante le quali lo schermo diventa nero. Si tratta di brevi intervalli dove l’avanzamento della pellicola è affidato unicamente al sonoro, come a voler suggerire che in questo film a porte chiuse non c’è spazio per intrusioni estranee alla diatriba cinematografica della coppia. Lo schermo nero ricorda la ricerca formale di Duras, d’altronde contemporanea di Hanoun e con la quale il regista sembra condividere le stesse preoccupazioni sull’uso del mezzo cinematografico. Duras teorizzerà e realizzerà in seguito, in particolare ne L’Homme Atlantique (1981), la possibilità di un “film della voce della lettura”. La voce di Marguerite Duras recita un testo accompagnato di tanto in tanto dal rumore delle onde, suggerendo delle immagini in negativo. Una camera oscura che rimbomba di eco, un film non da guardare ma da ascoltare: « Ce qui m’intéresse c’est de faire entendre un texte accompli au cinéma. Dans L’Homme Atlantique, les gens regardent le son » (Quello che mi interessa è fare ascoltare un testo compiuto al cinema. Ne L’Homme Atlantique il pubblico guarda il suono).

Come si è potuto vedere il suono è una componente primaria nel cinema di Hanoun, il regista costruisce i suoi film ricalcando la struttura di una partitura, prediligendo per il sonoro la musica rispetto alla parola e disseminando le sue pellicole di omaggi ai maestri della composizione classica. Specialmente in L’Automne, la musica è l’elemento principale che permette al pubblico di farsi un’idea sonora di Juliette Sacrifiée guidandolo, in questo modo, verso una costruzione filmica personale. Progetto che causa qualche perplessità in Julien, il quale domanda alla sua assistente, non senza ironia di Hanoun, che vuole alludere più al suo film, L’Automne, che a quello di Julien, « Pensate che sopporteranno tutto questo? »; « Chi? »; « Gli spettatori ». Domanda a cui Anne pare aver già risposto implicitamente nel loro primo incontro. Quando Julien le chiede cosa ne pensi dei suoi film lei gli confessa che la visione le ha provocato un sentimento di irritazione, precisando però che l’irritazione è anche ammirazione. Ammirazione e irritazione, le reazioni del pubblico che assiste all’affermazione di un vero e proprio manifesto “scritto” e “recitato” da Julien, declamatio di un ars poetica che racchiude a 360 gradi le tesi che Hanoun ha applicato meticolosamente al suo cinema. Seguono uno dopo l’altro, così come si susseguono gli slogan studenteschi del maggio ’68 ne L’Été, i concetti chiave della teoria di Hanoun: « Il cinema per essere autentico deve auto-denunciare la finzione sulla quale è costruito »; « Scopo del cinema è quello di fissare sullo schermo i sentimenti senza ricorrere alla narrazione »; « Il cinema ha ragione di esistere solo se prende la dovuta distanza dal proprio soggetto »; « Il cinema è arte della distanza e della sottrazione »; «I film “pornolitici” sono il fantasma di un’erezione senza orgasmo ». Contrario a una fruizione passiva e a quel cinema che è messinscena di voyeurismo e feticismo, Hanoun guarda con disprezzo ai film pornolitiques (neologismo da lui coniato per assimilare i film politici del mercato mainstream al cinema pornografico). Al contrario, il suo cinema è esperienza totalizzante per lo spettatore, che decide di addentrarsi coscientemente nella polisemia visiva e sonora disseminata dal vento delle Quattro Stagioni.

« Tu prendras conscience, mettant en route la mécanique de ta camera, que cette mécanique fait indissociablement partie de la mécanique céleste » (Azionando la meccanica della tua macchina da presa, diventerai cosciente che quella meccanica è parte indissociabile della meccanica celeste).