Con il numero di film in pellicola prodotti destinato a un’irreversibile discesa, sul finire degli anni Novanta l’ineluttabile morte del cinema filippino era vissuta come una certezza. Non sorprende quindi che la diffusione del digitale sia stata accolta come una vera e propria rivoluzione, con oltre un centinaio di film digitali prodotti in pochi anni a infondere nuova linfa allo stagnante panorama cinematografico nazionale. La novità viene tanto dalla possibilità di accedere più facilmente ai mezzi per realizzare le proprie visioni cinematografiche – fenomeno, questo, che non riguarda ovviamente i cineasti indipendenti, ma anche il circuito mainstream – quanto dall’ambiente didattico e accademico che amplia le sue proposte per la formazione di una nuova generazione di cineasti: «Nel 2002, la University of the Philippines Film Institute (UPFI), in aggiunta al suo Bachelor of Arts degree program in Film (esistente dal 1984), offre un Master of Arts in Media Studies, il primo e, finora, unico programma di laurea in cinema nelle Filippine. Nel 2007, il De La Salle-College of St. Benilde ha istituito il Bachelor of Arts in Multimedia Arts (Video Track) program. Anche le istituzioni che offrono corsi certificati in regia sono state create in questa decade. L’Asia Pacific Film Institute (APFI) (fondato nel 2001), International Academy of Film and Television (IAFT) (fondato nel 2004), e il Marilou Diaz-Abaya Film Institute (MDAFI) (fondato nel 2007), tra gli altri, hanno formato un numero di registi filippini. Workshop di regia come quelli organizzati dal Mowelfund Film Institute, e da UP Film Institute, UFO Workshops […] sono inoltre stati fondamentali nella formazione di molti registi indipendenti. Qualche talento na-scente si è anche formato all’estero, presso il Berlinale Talent Campus e l’Asian Film Academy Fellowship Program, tra gli altri» [1].

L’emergere del cinema digitale è anche dovuto al rafforzamento delle ICT (Information and Communications Technology) nella regione, grazie a iniziative finanziate dallo Stato come la Commission on Information and Communications Technology (CITC), la quale si occupa del Philippine Cyberservices Corridor (PCC): «Esteso per 600 miglia da Baguio nel Nord Luzon fino a Zamboanga nel Mindanao, il corridoio di cyberservices ospita tuttora 75.000 call center e compagnie di business process outsourcing (BPO), che vengono supportati da una spina dorsale di fibra a banda larga e una rete digitale» [2].

Il digitale apre le porte soprattutto ai giovani, che da spettatori diventano ora in grado di scuotere la condizione del cinema nazionale. Non solo si forma una nuova generazione di cineasti, ma prende piede anche la critica online, distante dai circuiti ufficiali di associazioni e festival ma profondamente legata, anche e soprattutto da rapporti di amicizia, con i cineasti stessi. Uno dei giovani critici che si afferma sul web, Adrian Mendizabal, scrive in proposito: «Il nucleo del movimento di cinema indipendente filippino è la gioventù filippina. Le ideologie e i principi del movimento vengono dalle voci stesse dei giovani: il suo modo esplorativo, avventuroso, esuberante, idealistico, le sue tendenze individualistiche, le sensibilità sperimentali, le qualità riottose, temi come l’alienazione, la crisi d’identità, la sessualità, il romanzo di formazione, l’amore e le relazioni, e molte altre caratteristiche sono ispirate dalla cultura giovanile odierna. Mi piacerebbe descriverlo come cinema della gioventù libera. Non è un mistero che molti dei nostri registi abbiano tra i venti e i trent’anni. Ciò è dato anche dal fatto che la scena artistica e culturale è composta principalmente da giovani provenienti da altre esperienze. Questa cultura liberale giovanile sta riesaminando se stessa e lo spirito del tempo con occhi nuovi» [3].

Già nel 1999 Jon Red firma la regia di Still Lives, primo film filippino girato in digitale. Nello stesso anno, dopo numerosi corti realizzati negli anni precedenti, Khavn de la Cruz gira il suo primo lungometraggio – il documentario Kamias: Memory of Forgetting – e sarà presto conosciuto come il padre del cinema digitale filippino, grazie alla sua sterminata filmografia di oltre centinaia di titoli e le sue intense attività collaterali. Di lì a poco, infatti, Khavn fonderà, nel 2002, il .MOV, primo festival filippino interamente dedicato ai film girati in digitale, esistente tuttora. Descritto come «l’attesa risposta delle Filippine al trascinante richiamo della Rivoluzione Digitale», il festival sarà una vetrina per i registi più estremi e indipendenti della scena, e contribuirà a consacrare, tra gli altri, la fondamentale figura di Lav Diaz. Dopo alcuni film realizzati in ambito commerciale, ma comunque distintisi per originalità e impegno politico, Diaz aveva scosso il panorama cinematografico nel 2001 con Batang West Side, opera di 5 ore girata in 35mm che, partendo da basi di genere come il giallo investigativo, si sviluppa invece come una riflessione politica sulla diaspora filippina, raccontando la vita di alcuni espatriati nel New Jersey. Sarà nel 2005, proprio all’interno del .MOV, che sarà proiettato il suo progetto più longevo, portato avanti per oltre 10 anni: Ebolusyon ng isang pamilyang Pilipino (Evolution of a Filipino Family, 2004), girato a metà tra 16mm e digitale, raggiunge la durata di 540 minuti e segna i prodromi per lo stile con cui Diaz sarà in seguito riconosciuto come uno dei maestri del cinema. Questo film fondamentale è uno spartiacque all’interno dello stesso cinema indipendente filippino e verrà visto da molti futuri registi come una fonte d’ispirazione irrinunciabile.

Sempre nel 2005, dall’altro lato del cinema indipendente, il film che ha inaugurato la nuova ondata di entusiasmo verso le possibilità del cinema digitale può essere considerato Ang Pagdadalaga ni Maximo Oliveros (The Blossoming of Maximo Oliveros, Auraeus Solito, 2005), presentato alla prima edizione del Cinemalaya Film Festival ed enorme successo al botteghino, la prima volta per un film girato in digitale, al punto da venire proposto come candidato ufficiale per gli Academy Awards come miglior film straniero. Giunto a festival internazionali come quello di Berlino in Europa e il celebre Sundance Film Festival negli Stati Uniti, festival-mecca per il cinema indie, il film immette di nuovo le Filippine nel circuito internazionale, dopo anni di silenzio. È questo un classico esempio di film ai margini del mainstream, realizzato grazie alla vincita del concorso di Cinemalaya e realizzato con un budget limitato, mentre Ebolusyon di Diaz è stato totalmente autofinanziato dallo stesso regista e frutto di oltre dieci anni di lavoro, colpevoli anche numerosi problemi tecnici relativi al formato. Se quest’ultimo, con le sue quasi dieci ore di durata, i suoi lunghi piani sequenza a camera fissa e l’uso del bianco e nero, è visto dalla critica come un film non adatto al pubblico per la sua complessità, il film di Solito, nonostante non appartenga al circuito mainstream, ha incontrato i gusti e le aspettative del pubblico, grazie a un impianto che da molti è stato definito neorealistico, ma filtrato in ottica queer, uno dei generi per cui il cinema filippino sarà più famoso all’estero. Questa tensione verso il ritorno economico, secondo Jonathan Beller, tradisce la debolezza – e la dubbia etichetta di indipendente – di prodotti di questo tipo: «I film indipendenti degli ultimi due anni […] aspirano all’universale (così come alla distribuzione commerciale) sopprimendo gli aspetti tradizionali del cinema filippino che lasciavano posto alla grinta quotidiana legata al luogo, un qualcosa di locale e intraducibile, che coinvolgevano tutto [il film] dai bassi valori di produzione, al sudore, ai rumori della città, ai modi di parlare, così come al punto di vista generico, alle qualità melodrammatiche e realiste e alle strutture emotive. Al contrario, i film di [Raya] Martin e Khavn hanno una loro mondanità che differisce dall’universalismo della ricezione mercificata e dell’esperienza borghese caratteristiche dell’aspirazione delle loro controparti più legate al mercato» [4].

Ancora una volta, oltre a rimarcare la non universalità del termine indipendente, vediamo come non sia possibile imputare al solo cinema digitale la riuscita di un film che sia svincolato dai canoni commerciali. Beller contrappone ai film indipendenti – l’autore fa riferimento a quelli prodotti da Cinemalaya – i film fuori dai margini di Raya Martin e Khavn, e per estensione quelli di Diaz, benché semplicisticamente ricondotti dall’autore al campo, riduttivo, del cinema digitale. Non basta quindi riflettere solo sulle porte che il cinema digitale apre in termini di accessibilità, ma sul modo in cui esso possa sovvertire o creare nuove possibilità estetiche: «L’accessibilità a strumenti di registrazione digitali ha dato un grosso impeto al modello amatoriale e Do-It-Yourself (DIY) attraverso la regione. Questa è una nozione ampiamente riconosciuta da chi scrive di cinema contemporaneo del Sud-Est asiatico. Eppure, piuttosto che sottolineare il budget basso o nullo, il fenomeno DIY ci invita ad aprire una più interessante prospettiva di rivalutazione del valore estetico e pedagogico dei lavori portavoce dell’amatorialità delle produzioni dal basso. A questo proposito, vi è una vicina correlazione tra il concettualizzare la regia DIY come un atto di liberazione e l’abbraccio artistico dell’amatorialità come una parte inerente della sperimentazione formale» [5].

Il digitale non dà solo la possibilità di realizzare un film a minor costo – o anche a costo nullo, come il primo lungometraggio di John Torres Todo Todo Teros (2006), realizzato al solo costo della videocamera – ma anche e soprattutto permette di rivoluzionare il linguaggio filmico stesso. Dai lunghi piani sequenza di Diaz la cui durata è irrealizzabile in pellicola, alla possibilità di ridurre la troupe a pochi elementi, a volte composta dal solo regista in documentari come Iskwaterpunk (Squatterpunk, Khavn, 2007) e Imburnal (Sewer, Sherad Anthony Sanchez, 2008), fino a una resa visiva volutamente povera e amatoriale, come gli intimi e personali corti di John Torres, tutto concorre a creare non solo un metodo di produzione e distribuzione alternativo, ma una vera e propria differenza linguistica ed estetica con il precedente cinema che viene incarnata dallo stesso statuto digitale in cui questi film vengono realizzati. Nelle parole di Beller, «il digitale emergente non rappresenta solo un cambiamento estetico; piuttosto, in maniera profonda e che dobbiamo mettere in risalto, è esso stesso quel cambiamento» [6]. Quella del digitale sarà una scelta strategica per rimettere in discussione il concetto stesso di identità filippina e di storia nazionale attraverso la personale elaborazione compiuta dai registi che, mai come in questo caso, hanno trovato totale libertà espressiva. In un’intervista, Diaz afferma: «[Il nostro] aspira a essere un altro tipo di cinema, dove distruggiamo il concetto di pubblico. Vi sono così tante possibilità. L’arte è davvero libera ora. […] Il digitale è una teologia della liberazione. Ora possiamo avere i nostri media. Internet è così libero, la macchina da presa è così libera. Ora il problema non è più l’impossibilità di girare. Ora esiste un cinema del Sud-Est asiatico. Ne siamo stati privati per lungo tempo, siamo stati ignorati, dimenticati dai media occidentali. Ciò era a causa di logistiche di produzione. Non avevamo i soldi, non avevamo le macchine da presa, e tutte quelle cose. Ora, queste domande sono state soddisfatte. Siamo alla pari ora. Oggi c’è nuova gente in grado di fare cose completamente diverse, come Raya Martin, John Torres, o Khavn de la Cruz nelle Filippine» [7].

Allo stesso modo, Khavn ha redatto nel corso degli anni numerosi manifesti, pubblicati principalmente su internet, dove ribadisce la totale libertà necessaria per realizzare un film. In The 12 Bowowows of Impurity, Khavn firma una parodia del voto di castità invocato dal manifesto Dogma95 di Lars Von Trier, parodizzato come Dogman2000, al quale contrappone la possibilità, anzi il dovere, di fare ciò che si vuole: «Si può girare ovunque; Il film può essere a colori; Il genere è permesso» (2000) e via dicendo [8]. Come decimo punto, egli specifica «Tutti sono un regista, dalla comparsa che fa il passante al ragazzo che ha tenuto i cavi per qualche secondo. Perfino l’indiano che ti ha venduto il computer è un regista. Nessun ribelle è senza gruppo. Nessun regista è un’isola» (2000). In Digital Dekalogo: A Manifesto for a Filmless Philippines leggiamo invece: «Il cinema è morto. È morto finché l’economia è morta, quando l’opinione pubblica e la creatività sono morte, quando l’immaginazione delle compagnie cinematografiche multinazionali è morta. Con budget di un milione di pesos a film, non ci saranno molti giorni felici per il regista genuino, il vero artista che vuole fare film, non dispositivi senza cervello con seni e sparatorie. Ma la tecnologia ci ha liberato. Il cinema digitale, con la sua mobilità, flessibilità, intimità e accessibilità, è un medium adatto a un paese del terzo mondo come le Filippine. Ironicamente, la rivoluzione digitale ha ridotto l’enfasi sulla tecnologia e riaffermato la centralità del regista, l’importanza della condizione umana sopra al cibo spazzatura visivo. Il cinema è morto. Per favore omettere fiori» [9].

Ciò che conta della rivoluzione digitale non è la tecnologia di per sé ma la liberazione che essa porta al regista, che torna ad essere un autore secondo l’accezione baziniana del termine. Un panorama, questo, immortalato dallo stesso Khavn nel film Philippine New Wave: This is Not a Film Movement (2012), composto da interviste a diversi registi – da maestri indiscussi come Kidlat Tahimik e Lav Diaz a esponenti del cinema più sperimentale come John Torres e Sherad Anthony Sanchez fino a registi di genere e documentaristi – che esplorano il significato dei concetti di cinema, digitale, indipendente e filippino. La libertà del digitale si configura, nel loro caso, come un doppio movimento di distruzione e ricostruzione del cinema.

[Tratto da Renato Loriga, Autohystoria. Visioni postcoloniali del nuovo cinema filippino, Aracne editrice, Roma 2016, per gentile concessione dell’autore].

[1] Gutierrez III, J. C., Pursuing Sustainability in Filipino Indie Filmmaking, «Plaridel», vol. 8 n. 2, agosto 2011, p. 54 (http://www.academia.edu/8972419/Pursuing _Sustainability_in_Filipino_Indie_Filmmaking).

[2]  Hernandez, E. M. P., The Beginnings of Digital Cinema in Southeast Asia, in Glimpes of Freedom. Independent Cinema in Southeast Asia, a cura di M. A. Ingawanij, B. McKay, Cornell Southeast Asia Program Publications, Ithaca 2012, p. 225.

[3]  Gutierrez III, J. C., Pursuing Sustainability in Filipino Indie Filmmaking, «Plaridel», vol. 8 n. 2, agosto 2011, p. 57 (http://www.academia.edu/8972419/Pursuing _Sustainability_in_Filipino_Indie_Filmmaking).

[4]  Beller, J., Iterations of the Impossible: Questions of Digital Revolution in the Philippines, «Postcolonial Studies», vol. 11, n. 4, p. 439, 2008.

[5]  Ingawanij, M. A., Introduction: Dialectics of Independence, in Glimpes of Freedom. Independent Cinema in Southeast Asia, a cura di M. A. Ingawanij, B. McKay, Cornell Southeast Asia Program Publications, Ithaca 2012, p. 4.

[6]  Beller, J., Iterations of the Impossible: Questions of Digital Revolution in the Philippines, «Postcolonial Studies», vol. 11, n. 4, p. 439, 2008.

[7]  Baumgärtel, T., Introduction: Independent Cinema in Southeast Asia, in Southeast Asian Independent Cinema, a cura di T. Baumgärtel, Hong Kong University Press, Aberdeen-Hong Kong 2012b, pp. 175-177.

[8]  Khavn, The 12 Bowows of Impurity, «Localvibe», Maggio 2000.

[9]  Consultabile presso: http://khavn.com/digital-dekalogo.