Uno degli slogan più malintesi della storia del femminismo è la frase di Simone de Beauvoir: “Donna non si nasce, lo si diventa”. Ancora oggi, a distanza di quasi settant’anni dalla prima uscita del suo imprescindibile saggio Le Deuxième Sexe, pubblicato a Parigi nel 1949, in molti continuano a interpretare queste parole come dichiarazione di una femminilità voluta e cercata. Chi abbia un po’ di dimestichezza con il testo, invece, conosce senz’altro la rabbia, l’insofferenza e la claustrofobia di cui grondano le oltre 400 pagine scritte dalla filosofa francese per ricostruire la storia e il destino di un genere, quello femminile, costretto alla marginalità e alla subordinazione. Un genere che continua invariabilmente a emergere come primo significante nell’esperienza di quello che vorrebbe essere prima di tutto un essere umano, un individuo “senza aggettivi” (citando una discussione sui personaggi femminili nella fiction tra varie autrici americane riportata in questo articolo). Un soggetto che nasce potenzialmente libero e che invece è costretto a confrontarsi con un corpo e un ruolo che la società ha deciso essere “altro”, essere “secondo”, essere “oggetto”, a fronte allo statuto di soggetto garantito agli individui-maschio. Tutto il dibattito tra femminismo della differenza e teoria queer può essere racchiuso nei due sensi in cui può essere interpretata la frase di de Beauvoir: se si intende, cioè, il processo di divenire-donna come un’opportunità o come una costrizione. Al di là di qualsiasi facile determinismo, alla luce del fatto che oggi in pochi credono ancora che sesso (la differenza banalmente fisica tra organi sessuali e corredo ormonale che intercorre tra maschi e femmine) e genere (il ruolo sociale culturalmente previsto in concordanza a tale corredo fisico e biologico) coincidano, la diversità nell’approccio è soprattutto strategica. Una volta riconosciuto che l’emergere di un soggetto femminile nella società è stato un processo storico, normalizzato e reso invisibile da secoli e secoli di riproduzione di un modello che ci appare ora come naturalizzato, ma che naturale non è, si tratta di capire se questa differenza storicamente (vale a dire economicamente, socialmente e culturalmente) creata possa essere un fattore decisivo per l’emancipazione o se, piuttosto, non andrebbe demistificata come tale e superata attraverso la sua critica.

Si tratta di una questione che, posta in questi termini, ricorda l’eterno dilemma tra riformismo e rivoluzione, tra socialdemocrazia e radicalismo. Ma sebbene la questione di classe informi e permei in più punti anche la questione femminile (ed è vero infatti, lo dimostra la Storia, che la diversità non ha rappresentato un limite per molte da donne abbastanza benestanti o potenti da non doverne patire, come anche che molte donne prima di lamentarla farebbero bene a, come si dice sull’internet, “check their privilege”), non è sul modello della classe che la questione di genere può essere compresa. C’è un altro parallelo che è invece molto più efficace per concettualizzare quest’ultima, che è, per molti versi, interclassista: quello con la questione razziale. L’economista Giovanni Arrighi ha saputo riassumere molto bene il rapporto che intercorre tra concetti che appaiono tanto lontani tra loro come genere, razza, identità nazionale, etnia, orientamento sessuale etc., che vanno invece compresi come prodotti dal rapporto di dominio capitalista. È innegabile, sostiene Arrighi, che per il modo di produzione capitalista le differenze, nel processo di accumulazione e valorizzazione, non contino, e per questo è anche vero che la battaglia delle donne come anche quella di tante altre minoranze è stata in parte permessa proprio da un miglioramento generale delle condizioni di vita materiali, così come è innegabile che il capitalismo abbia incluso sempre di più tutta una serie di subalterni nella sfera produttiva, ampliandone i diritti e dandogli finalmente una voce. Tuttavia, nel momento in cui il capitale appare chiaramente in crisi, come oggi, la classe subalterna (lavoratrice o, sempre di più, aspirante tale) è destinata a spaccarsi, a “mobilitare qualsiasi differenza che possa garantire un trattamento privilegiato da parte del capitale” (tradotto da qui) ingaggiando così una guerra tra poveri.

Differenze che tendiamo, in parte non senza ragione, a concepire come retaggi di un passato premoderno (“medievali”, si dice spesso nel dibattito liberal), sono invece un prodotto molto moderno (lo dimostra anche Silvia Federici a proposito della questione femminile nel suo libro Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria) del processo capitalista, che pertanto non possono essere risolte con un banale appello a un illuminato e illuministico universalismo. Ma sebbene la differenza sia un processo storico di othering, di isolamento, di esotizzazione, di costruzione di un’alterità che ha fatto leva su diversità non necessariamente portatrici di un processo di soggettivazione identitario, la demistificazione non è sufficiente a superarle, occorre prenderne atto e tenerne conto in quanto realtà storiche che hanno una fattuale storia degli effetti, vale a dire sono portatrici di una serie di conseguenze molto materiali e tangibili nella prassi sociale e politica.

Come dimostra l’articolo di Kiva Reardon che pubblichiamo in questo numero, la battaglia per la parità è ben lungi da essere conclusa o superata, il fatto che ad apparente parità di accesso all’istruzione e ai mezzi di produzione permanga un clamoroso gender gap ne è una prova. Un gender gap che, per quanto riguarda il cinema, investe tre diversi piani: quello della rappresentazione sullo schermo, quello della quantità di donne dietro la macchina da presa, e infine quello della riflessione sul (e promozione del) cinema, vale a dire quello della critica. Il primo, quello della rappresentazione, è un campo dibattuto da almeno cinquant’anni, perché le donne non hanno mai avuto un problema di “invisibilità” nel cinema. In qualità di “oggetto”, sono state sempre largamente rappresentate, sebbene ad uso e consumo di uno spettatore maschio. Dal primo, celeberrimo contributo di Laura Mulvey Visual Pleasure and Narrative Cinema (1975), i tentativi di decostruire il modo in cui le donne sono state rappresentate nel cinema di finzione si sprecano, e sono, giustamente, ben lungi dal concludersi. Il lavoro di riflessione su questo campo ha portato con sé alcune speranze che si possono schematizzare come segue: più modelli femminili differenti di donne vedremo rappresentati al cinema, più aumenteranno le donne-regista, che a loro volta diffonderanno attraverso i loro film una visione della donna non più stereotipata. Un circolo virtuoso insomma, con il corollario secondo il quale i film che propongano immagini positive e innovative della donna e/o girati da donne andrebbero promossi maggiormente, e chi potrebbe avere più a cuore la questione se non le donne-critico? Tutto sembrerebbe insomma risolvibile con una soluzione da “quote rosa”: più donne in tutti e tre i settori garantirebbero automaticamente un punto di vista differente ed equilibrato, risolvendo la questione dell’inclusione una volta per tutte.

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Il problema con questo tipo di rivendicazioni, però, è prima di tutto pratico. La prima domanda che sorge spontanea è “a chi si fa appello?” Allo Stato? Alle case di produzione? Agli investitori? Alle singole riviste di critica? Ai grossi quotidiani? All’Academy e ai suoi Awards? Agli spettatori? Chi, insomma, dovrebbe garantire questa parità? La seconda è strategica. Un approccio politically correct come questo può avere qualche speranza di successo a livello di immagine pubblica? Viviamo in tempi in cui il termine “femminismo”, nonostante un suo grande ritorno nel dibattito mainstream, sta assumendo un significato sospetto quando non addirittura sinistro. In un mondo sempre più globalizzato, le rivendicazioni femministe, specie in occidente, specie quelle relative ai diritti di inclusione, riconoscimento e rappresentazione, suonano come voci privilegiate in un sistema in cui “c’è ben altro” di cui preoccuparsi: nuove minoranze ancora più svantaggiate sono apparse sulla scena pubblica, mentre la questione femminile è stata presa sotto l’ala e strumentalizzata da un mercato che cerca ancora disperatamente (ma con poche chance di successo, vista la crisi sistemica e la conseguente proletarizzazione del ceto medio a cui stiamo assistendo) di espandersi (si pensi al pinkwashing e al diversity management in cui gli uffici di marketing investono sempre di più) e da una politica che cerca nuove scuse per aumentare il proprio tasso di sorveglianza e punizione (è questo quello che sta alla base del cosiddetto femonazionalismo, di cui i fatti di Colonia del capodanno 2017 sono stati un esempio lampante). La terza domanda, collegata alla prima, riguarda il fatto che in virtù della storia di discriminazione che le donne hanno vissuto e continuano a vivere, i maggiori successi artistici e intellettuali sono stati innegabilmente raggiunti finora da una maggioranza di uomini, e il cinema non fa eccezione. Riconsiderare tutto il canone, e/o imporne uno nuovo sulla base del criterio di genere o di razza, perciò, appare abbastanza paradossale. Sarebbe come chiedere di smettere di proiettare Griffith per via del razzismo che riflette, o di studiare il western in quanto partecipe del processo di mistificazione di un genocidio, o di escludere tutti i pensatori maschi e bianchi dai libri di filosofia, come infatti hanno richiesto provocatoriamente alcuni studenti inglesi di recente, senza contare il potenziale risentimento da parte di coloro che non solo fanno parte della maggioranza silenziosa dei privilegiati, ma che sono spesso in attesa di occasioni come queste per dimostrare l’assurdità di iniziative politically correct e rafforzare così la difesa del proprio privilegio.

Queste osservazioni possono sembrare a prima vista una forma di cautela, un invito a non buttare il bambino con l’acqua sporca, mentre racchiudono una proposta ben più radicale, che mette in questione molto più profondamente la storia di discriminazione che le donne innegabilmente hanno vissuto e tutt’ora vivono. Riconsiderare tutto il canone, come propone Reardon, rischia di farci perdere una prospettiva storica che è invece la nostra unica speranza se vogliamo comprendere il mondo in cui viviamo, un mondo fondato sulla discriminazione, sulla violenza, sulla negazione dell’autodeterminazione, sulla sistematica tacitazione e repressione di voci e sguardi “altri”. L’esperienza di subalternità vissuta dagli appartenenti alle minoranze può diventare un’opportunità di critica e messa in discussione del sistema vigente solo a patto che la loro storia non venga cancellata. Sostenere però che in virtù di questa storia un individuo sarebbe automaticamente l’unico o il più adatto ad affrontare questa tematica, equivale a rinforzare il pregiudizio sessista (come anche colonialista e razzista se portiamo avanti il parallelo iniziale con la questione razziale) secondo cui il maschio bianco sarebbe in fondo un individuo “neutro”, capace di parlare di sé ma anche di e per tutti, mentre tutti coloro che non rientrano in questa categoria sarebbero condannati ancora una volta a situare la propria voce, a raccontare (e perciò, per l’ennesima volta, a ipostatizzare) la propria alterità, la propria estraneità al discorso dominante, in realtà rafforzandolo inevitabilmente. È quello che accade se si continua a relegare le “donne” nel ghetto del discorso di genere, se si suppone che il cinema “delle donne” sia, in virtù di questa “semplice” (in realtà molto complessa da dimostrare e circostanziare, soprattutto in una società in cui i ruoli sociali appaiono finalmente sempre più sovvertiti) appartenenza a un genere, per forza di cose “altro”, una trappola in cui cadono anche tanti sostenitori di un cinema diverso da quello che il mainstream continua anacronisticamente a proporre, senza rendersi conto che ciò ha conseguenze deleterie e prescrittive tanto per la dimensione politica della questione di genere che per la critica stessa. Credere che le donne siano necessariamente foriere e fautrici di un “altro” cinema (come di un’ “altra” critica) vuol dire in primo luogo auspicarsi opere che dichiarino a un primo sguardo una chiara appartenenza di genere del loro autore; in secondo, sostenere che le donne non abbiano altro da portare sullo schermo (o sulla pagina) se non la propria esperienza “marginale”; e in fondo negare le differenze individuali che fortunatamente esistono anche all’interno di quel bacino identitario della differenza di genere (o di razza) che altro non è se non un fantasma creato ad hoc dal pregiudizio maschilista (o da quello bianco).

Perciò la “soluzione”, o per meglio dire la pista da seguire, non sembra quella di invocare più donne nella produzione o nella critica cinematografica, quanto piuttosto quella di aumentare la consapevolezza della disparità di genere in entrambi gli ambiti. Più che invocare più donne, si tratta di pretendere meno sessismo nel cinema, o meglio più coscienza della disparità di genere, portando avanti questo progetto in modo autenticamente trasversale: vale a dire da tutti (donne, uomini,etero- e omosessuali, cis- e transgender, queer, etc. perché, per essere antisessisti, essere donne non è condizione né sufficiente né necessaria) e in tutti gli ambiti, smettendo di credere che il problema della minoranze sia marginale, riconoscendone invece il carattere di centralità. Il che equivale a creare una coscienza storica, smascherare e portare sempre di più alla luce, in un lavoro trasversale e collettivo, le dinamiche di esclusione, discriminazione e sfruttamento su cui, in vari modi, si è costituita e continua a costituirsi la pratica sociale di cui facciamo parte. Ribadire costantemente che sono le condizioni materiali a fare di una donna una donna e di un nero un nero, dove con condizioni materiali si intende non la loro “natura”, bensì le condizioni socioeconomiche che si fondano inevitabilmente sulla separazione e non sull’uguaglianza. I “diritti” (come le quote rosa) a cui troppo ingenuamente si fa spesso appello, arrivano non solo tardivi, ma soprattutto rischiano di riconfermare e “rinaturalizzare” le condizioni di divisione (su base sessuale, nazionale, confessionale, razziale, etnica etc) su cui si fonda la possibilità di dominio.