Al terzo giorno di festival arriva quello che, con ogni probabilità, è il miglior film italiano in programma a Cannes. E lo si deve a un giovane cineasta che ha trascorso buona parte della propria vita negli Stati Uniti: Jonas Carpignano, classe 1984, ha presentato alla Quinzaine des Realizateurs A ciambra, rielaborazione di un corto che, nel 2014, gli aveva aperto le porte alla Semaine de la critique per il suo primo lungometraggio, Mediterranea. Al termine della proiezione, accolta da applausi scroscianti, sono arrivati, prevedibili, i paragoni con il cinema di un altro italiano di stanza negli USA, Roberto Minervini, e senza voler forzare troppo l’accostamento, si potrebbe dire che i due condividono passione e coraggio nel raccontare marginalità sociali in tutta la loro problematica vitalità, cosi come uno sguardo che da esterno si fa interno e permette di cogliere in tutta la loro ampiezza contraddizioni che rischierebbero altrimenti di venire circoscritte alla loro mera componente cronachistica. Ma qui si fermano le somiglianze. Se il regista marchigiano si muove tra la Louisiana e il Texas e non sembra aver intenzione (almeno per il momento) di filmare la terra propria d’origine, Carpignano compie un percorso inverso: cresciuto a New York, pare aver trovato il proprio territorio di elezione nella scabra piana calabra, angolo d’Italia rimosso e dimenticato se non, appunto, dai notiziari.

“Guerrilla filmmaking”: così Carpignano ha definito il proprio stile in una recente intervista, ed effettivamente la maniera in cui ha saputo inserirsi all’interno della comunità rom di Gioia Tauro nel “fortino” della Ciambra, vero e proprio ghetto della cittadina calabra, è sorprendente: la camera a mano, mobile e vibrante, sta addosso senza tregua ai corpi che filma, in un’adesione che non cerca il mimetismo estetizzante a cui sembra essere ormai ridotto il magistero dei fratelli Dardenne, ma per sentire sulla superficie dell’immagine quello che i protagonisti provano sulla propria pelle. Nelle due ore di film, non ci sono cadute di tono, né di tensione: l’arresto del padre e del fratello maggiore di Pio, spinge il ragazzino a prenderne prematuramente il posto, passando da furti d’auto a ruberie in villa, fino a tradire l’unico vero amico, l’africano Aiyva, nella speranza di fornire alla madre le migliaia di euro che servono a saldare un ingente debito. Per una volta, i protagonisti non sono “poveri ma belli”, come quelli di troppo nostro cinema fintamente neorealista, ma spigolosi, acerbi, recalcitranti all’istanza recitativa, e costringono chi guarda ad accettarne comportamenti ed esistenze senza edulcorazioni di sorta. Esistenze ai limiti del degrado civile, in casolari fatiscenti sovente privi di elettricità e circondati da montagne di spazzatura, dove a regnare sono l’isolamento, l’analfabetismo e le leggi di strada. Un meridione lontano da qualunque colore se non quello di razze diverse che convivono nello stesso quadrato di terra amara.

Un film duro e privo di compromessi cui si perdonano volentieri una manciata di sbavature: l’iniziazione di Pio con la prostituta, a film ormai finito, con una scena che non aggiunge e non toglie niente al percorso del piccolo protagonista; o i brevi momenti visionari legati alle apparizioni a cavallo del nonno, rappresentante di una tradizione e di una libertà ormai perdute. [Alessandro Stellino]


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LO SGUARDO DI UN PADRE

La gelosia non è soltanto il titolo che ha aperto una trilogia di film particolarmente fortunati per Philippe Garrel, i primi – dopo anni di alterne fortune – che hanno permesso al più grande regista vivente francese di allargare il proprio pubblico oltre la schiera dei “fedeli”. Curioso che l’indagine e la declinazione di questo sentimento siano passate attraverso i corpi dei suoi figli, Louis e Esther, che con le loro presenze eteree e sfuggenti aprono e chiudono il terzetto di film. Vera protagonista di L’amant d’un jour, presentato con plauso alla Quinzaine des Realisateurs, è infatti Esther Garrel, che arriva di notte, piangente, a casa di un padre professore universitario (Eric Caravaca) per farsi consolare di un amore finito. Il più grande amore della sua vita. Ma la casa è occupata da una sua coetanea (Louise Chevillotte), nuova compagna del padre, disinibita e libera come raramente sono le donne di Garrel. Le due diventano amiche, ma sarà proprio questo rapporto a causare involontariamente la fine della relazione tra professore e allieva.

Se già L’ombre des femmes viveva dell’essenzialità dell’immagine in bianco e nero, portata da un controllato commento fuori campo, questo nuovo film – ancora più breve, ancora più netto, sempre fotografato da Renato Berta – sceglie una voce femminile per siglare i momenti cardine di un racconto morale che non ha alcuna pretesa di risolvere le complesse relazioni amorose. Come il suo protagonista, Garrel sembra annoiarsi “se non è implicato in un divorzio” dal commento scherzoso della figlia: qui il nodo è quello complesso della visione dell’attimo di godimento femminile, momento di liberazione che non sempre coincide con la possibilità di sentirsi liberi nel rapporto di coppia. L’orgasmo, lasciato solitamente fuoricampo nel suo cinema, diventa il centro di due scene gemelle e tabù irrappresentabile che segnerà a suo modo l’impossibile risoluzione del rebus sentimentale.

E si guarda con una certa malinconia il finale del film, riconoscendo in Garrel lo sguardo di un padre che comprende e lascia andare. Preparato soltanto a restituire l’immagine della fulgente giovinezza di due donne degli anni 2000, pronte a cingersi in un abbraccio che lenisce ogni ferita, fiere d’inseguire un amore totale per le strade del mondo. [Daniela Persico]