A colpo d’occhio, i primi cortometraggi del giovane autore Alexis Langlois paiono imperniati attorno a un compartimento visivo logoro, indeciso tra gli sperimentalismi radicali di Zwartjes, i corpi imbanditi di Kren e la weirdness di Matsumoto e Terayama da una parte, e una vocazione spettacolare memore dello Shortbus (2006) di Mitchell dall’altra.

Mascarade (2012) pur collocandosi nel solco del cinema queer più prevedibile, abitato da personaggi anticonformisti a oltranza, è già sorretto da una dimensione sonora pregnante che riesce, in parte, a riabilitarlo. Difatti, l’opera di Langlois, impegnato altresì nella realizzazione di videoclip, testimonia un interesse costante per le sfumature musicali dei corpi; per le battute dei personaggi come contrappunto doppio grazie al quale dare forma a un tappeto sonoro inquieto; per i silenzi propensi a far implodere i luoghi chiusi entro cui, spesso, si consumano i suoi cortometraggi: «Le cose sono più vive dentro che fuori», si afferma in Je vous réserve tous mes baisers (2014).

Così, in Dis-moi que tu m’aimes (2009) la ragazza è già arrivata nell’appartamento del suo fidanzato negligente, la valigia deposta sul pavimento. L’esterno non è del tutto assente, ma è il suo statuto a essere messo in discussione. Prolungamenti le cui ombre si proiettano su schermi traslucidi, gli esterni rinviano ad ambienti altri – reali o virtuali –, impedendo la classificazione di queste escrescenze: aree rocciose, inaccessibili come un tempo distante, dove si consumano riti dionisiaci di smembramento, per opera di spiritelli dispettosi o esseri ancestrali che si palesano anche in Zuma Monte (2014); o, ancora, strade cittadine in cui gli adulti – gli stessi che sminuiscono lo struggimento amoroso di Billie, perché «à ton âge le chagrin c’est vite passé» – non trovano posto, mentre i ragazzi vi scorrazzano come per cacciarsi fuori dal sogno-incubo solipsistico che è l’adolescenza. Ogni esperienza è totalizzante, a malapena condivisibile con i propri amici («Perché gli altri continuano a essere felici quando io non lo sono?», si chiede una ragazza in Fanfreluches et idées noires) che, tuttavia, sono insostituibili per la loro disponibilità a sostenere qualsivoglia progetto di rivalsa o di folle divertimento. Essere adulto non significa allora aver superato l’adolescenza, ma non essere più disposto a sprimacciare il proprio volto, che sia quello ricoperto da una patina di pittura e glitter o quello della madre impettita di Billie. Da qui la centralità dei visi e di ogni altro particolare anatomico – titillato, strizzato, leccato – inquadrati mediante primi e primissimi piani che, nel processo di “voltificazione”, perdono anche un referente corporeo ben definito, spezzettato in un’orgia di corpi, di consistenze, di sapori.

La furia kitsch trasforma i corpi alla stregua di totem in movimento, emersi da un sottosuolo brulicante di persone fiere della propria eccentricità ma ancora in cerca di una dimensione esistenziale più stabile che non tradisca la propria individualità. Sebbene la gente creda di poter incuneare una personalità entro una cornice descrittiva esauriente, l’unica cosa che essa può garantire è «the extent of my inconsistency», si dichiara in Je vous réserve tous mes baisers. La macchina da presa è mobile e vivace, quasi a creare una distorsione attraverso cui registrare i gesti, colti nel loro aspetto più ferino, mentre l’eccitazione e l’afrore dei corpi si propagano tramite le masse sonore, contrapposte alle immagini affastellate sino alla slabbratura dei contorni: la bocca come un buco nero, gli occhi-costellazione che hanno bisogno della «douceur» di un abbraccio intimo e non soltanto di un desiderio sessuale momentaneamente appagato.

Ed è pertanto nel dittico di cortometraggi più recenti – Fanfreluches et idées noires (2016), in anteprima a Lovers Film Festival di Torino, e À ton âge le chagrin c’est vite passé (2016), presentato al Sicilia Queer Filmfest – che comincia a delinearsi più chiaramente la poetica di Langlois. L’immagine è completata dalle parole, aggirando la trappola che essa stessa ha architettato e gli schematismi che, ad esempio, fiaccavano un film come Little Gay Boy (2013) di Anthony Hickling, del quale Langlois ha curato l’aspetto visuale.

Scampoli di conversazioni affiorano, acuendo la sensazione di spaesamento dei ragazzi alticci, finché la commedia musicale riprende ogni volta il sopravvento. I giovani attendono – j’attendais è il mantra di Fanfreluches – e sembra proprio che sia l’attesa a generare quelle “idee nere” che fanno saltare il coperchio che schiaccia l’anima, colando sul volto inquadrato.

L’immagine chiave del suo cinema è quindi, forse, quella in cui la musica si protrae, ondivaga, e poi rallenta, mentre i giovani giacciono senza uno scopo – come il preservativo usato che pende dal gomito di un ragazzo – aggrovigliati l’uno all’altra, dormienti dai volti corrucciati che rivivono nel sonno il vuoto esistenziale delle loro vite. À ton age… si apre così nell’oscurità con la quale termina Fanfreluches. Tuttavia, alla Billie disperata, fanno da contraltare le sue amiche che, da lettrici di Joyce, Proust e Lacan, deridono il suo ex-ragazzo che non sa neppure usare le virgole, per rivelarsi, poco dopo, anche rapper riottose e ragazze frivole che spettegolano. In un momento storico in cui i giovani si sentono fragili porcellane in un «castello di cemento», la confusione di generi non poggia più sui soliti stilemi che finiscono per svilirla: il caos genera un cosmo nuovo in cui coesistono i versi di François Villon e le emoticon di una chat, la depressione e la rabbia, le preoccupazioni e l’euforia, melodramma e commedia.