Garmonbozia

Dei molti neologismi coniati da David Lynch, “garmonbozia” è di certo il più suggestivo. Il liquido che fa da benzina agli psicopompi, forse derivato da “ambrosia”, forse da “booze”, immediatamente peculiare e sgradevole da sentir pronunciare, che si manifesta come una prosaica e quotidianissima crema di mais. Eppure, a volte, tutto sembra ruotare attorno a questa garmonbozia. In Lynch, e soprattutto in Twin Peaks, ogni elemento portante corrisponde a una microrappresentazione atomica della sua intera poetica. La garmonbozia non fa eccezione: quotidiana ed esageratamente ordinaria come il Double R o le villette felici di Velluto Blu, e insieme del tutto aliena alle convenzioni, come un sicomoro con un pancreas pulsante alla sua sommità. Sebbene sia uno dei più lampanti, la garmonbozia non è che un esempio della capacità di Lynch di condurre per mano i suoi adepti, per portarli a spasso nell’inconscio1, oltre che della capacità di suggestione quasi mansoniana che esercita su di loro. Come per le più abiette creature partorite nelle proprie opere, che sono figlie sue quanto lo sono i difensori della legge e dell’ordine, anche al creatore ogni licenza è concessa. Le regole a cui attenersi sono poche ed imperscrutabili e l’ultima stagione di Twin Peaks ha ampiamente dimostrato di ignorare i limiti del buonsenso e del politicamente corretto, anzi di gradire il loro sbeffeggio. Le accuse che da sempre accompagnano l’autore, quella di indulgere nelle violenze sulle donne o di trascurare ed emarginare gli attori di colore, non sono solo ignorate in Twin Peaks – The Return, ma sembrano volutamente sollecitate (l’unico personaggio afroamericano è una prostituta, che per la prima volta vediamo nuda senza alcuna edulcorazione estetica).

Una fila di badili d’oro

Un senso nel nonsenso permane e discernere la volontà del regista di premiare i più fedeli da quella di percularli resta impossibile. Lo sapevamo già. Ma il surreale secondo Lynch, che ora ci appare così magicamente interconnesso, quasi razionale nel suo prefigurarsi, rimane il frutto di coincidenze e di una capacità non comune di adeguamento in corsa. Dopo che la seconda stagione gli sfuggì di mano, infatti, tra rivelazioni anticipate, cambi di orario e rami secchi brutalmente potati, l’idea del regista era di rifarsi subito con una terza. I riferimenti a “25 anni dopo”2 parevano poco più di un MacGuffin atto a far pensare i cervellotici e visionari di professione. Il prequel di Fuoco cammina con me rappresenta, in questo senso, l’incapacità di mollare il colpo, di fronte alla mancata volontà dei network di proseguire con la serie, ma forse anche la consapevolezza che il futuro gli darà ragione. Il discusso prequel, prima osteggiato e poi venerato, è il progenitore diretto di The Return e, oltre a regalare deliziosi e indimenticabili siparietti lynchiani – il ballo crittografato della Rosa Blu – è il primo banco di prova del passaggio del Tempo e dei suoi effetti sui volti e i corpi di Twin Peaks. Per una Lara Flynn Boyle/Donna Hayward che rifiuta subito di ricomparire, Dana Ashbrook/Bobby Briggs sembra già inadatto a vestire i panni di un liceale. Forse non è un caso se sarà proprio lui, nel primo vero tuffo al cuore di The Return, il volto-meridiana scelto da Lynch per rivivere le sensazioni di 25 anni fa e misurare il tempo trascorso, sulle note di piano che da sempre accompagnano la foto di Laura Palmer, eterna reginetta del ballo.

Non è dato sapere quando Lynch decida di estrarre l’espediente narrativo dei 25 anni dal terzo episodio della prima stagione e trasformare il reale in diegetico, confondendo definitivamente i confini per la gioia dei fan. Forse la possibilità di ridare vita alla serie prende corpo prima di allora o forse no, ma tutto torna (o così sembra). La (pre)visione di Heather Graham/Annie, la (post)visione di Laura Palmer nella Loggia: le tessere trovano tutte una collocazione, il bicchiere di latte sembra “scaldarsi”, per dirla con il “cameriere più vecchio del mondo”. In genere la specialità della casa, quando il godimento del risolutore sembra compiersi, è quello di compromettere tutto e ripartire, confondendo le idee. Ma forse stavolta avviene qualcosa di diverso.

Multimedialità in una gabbia di vetro

Dopo i primi tre episodi di The Return le parole sulla bocca di tutti sono state arte contemporanea, video installazione, riflessione sull’audiovisivo. Di certo la gabbia di vetro destinata a imprigionare le immagini fuggenti inter-dimensionali e le sue implicazioni, o gli universi attraversati da Cooper, prima di tornare al “reale”, lasciano pochi dubbi sulla natura metatestuale della terza stagione di Twin Peaks. Ma se le interrogazioni concettuali di questo trascinante incipit, dominato dalle percezioni sensoriali, dalla loro amplificazione e distorsione, sembrano attenuarsi nel prosieguo della serie, si tratta solo di apparenza. Il dispositivo e la sua evoluzione sono costantemente ribaditi, con esposizione di telefoni, Skype e di ogni tipologia di armamentario tecnologico proprio del terzo millennio3. L’intento nostalgico, a lungo desiderato, e incarnato dal caffè e dalla torta di ciliegie, è rimandato, forse ad libitum, in una evidenziazione del qui e ora. Fin dalla distorsione (dalle variazioni quasi impercettibili) che accompagna il tema originario nei titoli di testa, l’appagamento è costantemente negato o servito in dosi minime. La volontà di negazione della nostalgia domina a livello geografico, con la dislocazione della vicenda, fenotipico, con l’esposizione delle rughe e la canizie dei personaggi, e uditivo, con la sostituzione di un’onnipresente colonna sonora con i lunghi silenzi della terza stagione.

È la Twin Peaks del miserabile presente, l’unica possibile. È la Twin Peaks di Bob e di Dark Coop, dominata da un pessimismo che va oltre la già scioccante serie originale, preludendo a nuovi e insostenibili orrori psicofisici su personaggi intensamente amati dai fan (come sembra di leggere tra le righe del settimo episodio, l’ultimo visto al momento di scrivere questo articolo). Tutto lascia credere che It’ll End in Tears, titolo dell’album dei This Mortal Coil che include Song to the Siren e che per anni ha ossessionato Lynch, possa adattarsi altrettanto bene all’intera carriera del “regista delle lacrime”4. E forse al suo epilogo, che potrebbe coincidere con quello di The Return.

Summa Lynchiana

All’annuncio del cast di The Return si è cominciato a comprendere l’oscuro disegno di Lynch. Laura Dern, Balthazar Getty, Harry Dean Stanton, feticci di un cineasta noto per l’autoreferenzialità. E molti di più sarebbero senza le premature scomparse di Frank Loggia, David Bowie o Jack Nance. D’altronde sfidare il Tempo, come The Return fa, significa (anche) sfidare la morte. È il destino di questo revival la lotta e l’interazione con la Fine: è la sua stessa natura a obbligarlo a muoversi su un delicato crinale, pur di conservare una coerenza diegetica. Il Phillip Jeffries di Bowie resta così parte dello script, mentre la signora Ceppo si dà fino all’ultimo respiro di fronte alla macchina da presa5; di Albert/Miguel Ferrer o del dottor Hayward (Warren Frost, padre del co-autore e mai citato Mark) è Twin Peaks a conservare le ultime volontà. Nella confusione di tempi e spazi che ha luogo nel nuovo Twin Peaks – che sovente è sito a Buckhorn, Las Vegas o addirittura Buenos Aires – Lynch chiama tutti al suo cospetto, regalando la suggestione di un ultimo grandioso atto che dia senso a tutto, per tradirla quasi certamente nell’epilogo. Spingersi in accostamenti tra i personaggi a cui questi attori danno vita oggi e quelli incarnati in precedenza per Lynch risulta velleitario nel momento in cui la circolarità della sua opera si fa sempre più chiara. È inutile tracciare linee di raccordo, almeno quanto sia per Dougie Jones/Dale Cooper il riempimento delle pratiche assicurative: occorre abbandonarsi all’impressione, alle sue intense oscillazioni tra realtà e immaginazione, alla sensazione che gli opposti possano toccarsi. Che un barbone scuro in volto che si muove nella morgue possa provenire da Mulholland Drive o una strada infinita in cui le personalità si scambiano da Strade perdute, che tutti quei cerini accesi e consumati in Cuore selvaggio siano la traduzione gestuale delle parole rituali “Fuoco, cammina con me”6.

Un balzo in avanti. Make sense of it

Sono molte e differenti le ragioni che rendono Twin Peaks – The Return la cosa più importante mai realizzata nell’ambito delle serie Tv. La sua percezione della dimensione temporale, il suo tentativo di rivitalizzare un linguaggio, prendendosi gioco di espedienti narrativi abusati, sembra voler nuovamente indicare la via, dopo un quarto di secolo televisivo esistito grazie a Twin Peaks stessa. Ma come già in INLAND EMPIRE e nelle sue dichiarazioni di abbandono del cinema, sulla serie aleggia un’atmosfera da fine della narrazione, da morte dello storytelling. Una delle frasi-simbolo pronunciate da Dougie/Cooper, e divenuta immediatamente un tormentone, recita “Make sense of it”, “dagli un senso”. Uno sprone, un gioco, una sfida, un invito all’esoterismo con delitto. Dare un senso al tutto richiede uno sforzo ulteriore: non può prescindere dalla sintesi del postmoderno, ma vorrebbe superarla, porsi “a parte”. Rivivono i feticci visivi di decenni di teorie sull’audiovisivo: una gabbia di vetro in cui catturare le immagini, che dialoga apertamente con lo sviluppo tecnologico del cinematografo, e un sicomoro parlante, attraversato da scariche elettriche, che assomiglia a una versione distorta di una macchina di Tesla. Quest’ultima dichiara apertamente la propria natura di upgrade, autodefinendosi “l’evoluzione del braccio”. Prima ancora del dato musicale, il lato più evidente di diversità dalle prime stagioni consiste nel rapporto con il digitale, nell’uso abbondante di computer graphics, totalmente innovativo e radicale rispetto al consueto sfoggio di creature ruggenti. Come per Fuoco cammina con me la definizione di prequel era stretta e fuorviante, in The Return non stiamo assistendo a un sequel, ma a un upgrade, a un Twin Peaks 3.0, di cui capiremo l’importanza concettuale solo nel futuro. Né a un revival, per definizione rassicurante e nostalgico. Chi si aspettava un tuffo nel passato è fregato, l’artista può solo guardare avanti.

Di certo si sa solo che, comunque andrà, finirà tra le lacrime. Di gioia, di commozione o dolore, ancora non è dato sapersi.


NOTE

1 Per Mimesis nel 2009 è uscito addirittura un saggio di Roberto Manzocco, per la collana Il caffè dei filosofi, intitolato David Lynch e la filosofia. La loggia nera, la garmonbozia e altri enigmi metafisici.

2 È il terzo episodio della prima stagione, anticipato in coda alla versione internazionale del pilot circolata nelle sale, ad anticipare a livello onirico la presenza di Dale Cooper nella Loggia Nera, 25 anni dopo la morte di Laura Palmer, in compagnia della ragazza stessa e di The Man From Another Place, meglio noto come il “braccio di Mike”.

3 Il culmine si ha nello spassoso duetto tra Frank Truman e la segretaria Lucy, ancora all’oscuro del funzionamento dei telefoni cellulari e della loro “magia”.

4 Spesso soprannominato così per l’abbondanza e le intensità di scene di pianto nei suoi lavori. Per Lynch le lacrime sono “come gli sbadigli: quando comincia uno, gli altri lo seguono inevitabilmente” (D. Lynch in Dennis Lim, David Lynch: The Man from Another Place, Houghton Mifflin Hartcourt, 2015).

5 Qualcuno ancora sogna un cameo postumo del Duca Bianco, ma pare che le sue condizioni di salute già precarie non gli abbiano permesso di recitare, cosa invece riuscita in ultimo a Catherine Coulson, la Signora Ceppo che dà il via a The Return.

6 In un’intervista recente Lynch ha dichiarato: “Se Frank Booth (il villain di Velluto blu, nda) avesse un tatuaggio, ci sarebbe scritto «Fuoco, cammina con me»”.