PLAYBOY: Iniziamo con una domanda di base: cosa significa transessuale?

WENDY CARLOS: Per la maggior parte delle definizioni, si tratta di una persona nata con le caratteristiche fisiche di un genere ma che si identifica in tutto e per tutto con il genere opposto e può desiderare un’operazione chirurgica per completare tale identificazione. Anche se sono nata maschio, sin dalla prima infanzia mi sono sentita femmina, e il confitto è diventato così terribile che ho dovuto compiere l’ultimo passo – diventare femmina nel corpo così come nella mente. Tra l’altro avrei preferito che la parola transessuale non si diffondesse così tanto. “Transgender” descrive meglio la mia situazione perché la sessualità in sé è solo uno dei fattori nello spettro delle sensazioni e dei bisogni che mi hanno portato a compiere questo passo.

Come sottolinea la studiosa e attivista trans Karine Espineira in una riflessione che prende spunto da The Danish girl di Tom Hooper (2015), viviamo in un’epoca in cui la rappresentazione mediatica e artistica dei gruppi subalterni, minoritari e/o oppressi, tra cui le persone trans, riveste una grande importanza e rischia però anche di essere utilizzata in modo strumentale da chi, desiderando costruirsi un ethos di umana compassione e democraticità, finisce più o meno in buona fede per appropriarsi del patrimonio di conoscenze di gruppi di cui non fa direttamente parte. Quando tale patrimonio deriva dall’esperienza e dall’elaborazione teorica della comunità trans, lo spossessamento prende il nome di cisplaining (un concetto che chi scrive ha appreso da un interessante articolo di Arnaud Alessandrin e Mélanie Bordaa: “Une visibilité trans à double tranchant” in Bourdaa e Alessandrin (dir.), Fan & gender studies: la rencontre, Téraèdre, Paris 2017). Alessandrin e Bordaa hanno studiato la ricezione di alcune rappresentazioni televisive e cinematografiche di persone trans all’interno della comunità trans stessa, mettendo in luce come quando si tratta di rappresentare soggettività minoritarie, il rischio che la visibilità sia “a doppio taglio” è sempre presente.

Prendiamo ad esempio l’intervista di cui è citato un estratto in esergo. Quando Wendy Carlos, al secolo Walter, nel 1979 incontrò “Playboy”, era da cinque anni una persona MtF nonché una musicista sperimentale di rilievo: il suo album d’esordio Switched on Bach (1968), che celebrava l’incontro audace tra sintetizzatore elettronico e musica barocca, aveva venduto più di un milione di copie diventando un successo planetario. Fu dopo aver ascoltato quel disco nonché il seguente The Well-Tempered Synthesizer (1969) che nel 1971 Stanley Kubrick decise di affidare a Walter Carlos la colonna sonora di Arancia Meccanica. Nel 1980, la collaborazione con il regista proseguì in occasione di Shining per cui Carlos, ormai divenuta Wendy, scrisse con Rachel Elkind una grande quantità di musica solo parte della quale effettivamente utilizzata (il pezzo d’apertura, il movimento che accompagna l’arrivo della famiglia Torrance all’Overlook Hotel e una breve composizione udibile nel trailer del film). Nell’intervista, Wendy reagisce con classe all’invadenza pruriginosa di “Playboy” (“Ti rasi ancora?” “Portavi i capelli lunghi nel periodo in cui prendevi gli estrogeni?” “I tuoi organi sessuali sono ancora sensibili?” “È consigliato fare sesso regolarmente?” “Quando hai fatto sesso per la prima volta dopo l’operazione?” “Lo hai indossato un bikini dopo l’operazione?”). La musicista risponde smarcandosi da stereotipi e puntualizzando sulla terminologia ma “Playboy” non ha alcun desiderio o capacità di raccogliere i suoi consigli e persiste nell’uso della parola “transessuale” con tutta la sua connotazione patologizzante. Questo è un caso di visibilità “a doppio taglio” ma gli esempi di visibilità virtuosa non mancano.

Carlos è una figura molto interessante per il modo in cui nel lavoro e nella vita ha assecondato le proprie esigenze creative. Musica, cinema, tecnologia, soggettività sono tutti territori in cui ha impiegato con serietà e audacia una tensione conoscitiva ed espressiva volta alla sperimentazione e all’attraversamento dei confini tra noto e ignoto. A lei, il collettivo livornese ONOMA dell’Associazione Effetto Collaterale ha dedicato un’esibizione multimediale dal titolo “Walter/Wendy_Carlos: appunti sonori per tras-formare” nata nell’ambito del bando “Assemblaggi Provvisori” promosso dall’Associazione Culturale Dello Scompiglio sul tema dell’identità di genere. La performance, scritta e diretta da Francesca Talozzi, è andata in scena nel mese di giugno al Teatro Rossi Aperto di Pisa, luogo propizio ad ospitare i diversi moduli in cui si articola questo oggetto artistico complesso fatto di testi, musiche, luci, proiezioni, corpi presenti (degli attori Valerio Chellini, Laura Rossi e Claudia Pavoletti) e corpi immaginifici (ritratti nella videoinstallazione di interactive photomapping Calypso realizzata da Nicola Buttari e Manuela Giorgia).

L’azione performativa nasce da una serie di domande: dove si colloca il confine maschio/femmina? Quanto, come e in che modo i due termini ci identificano e ci costruiscono? Con quali strumenti espressivi possiamo tentare un’esplorazione che ci conduca a ri-codificare le nostre identità? Diversi linguaggi visivi, scenici e sonori (monologhi teatrali, letture, coreografie sociali, défilé, fotografie animate) sono quindi convocati “alla ricerca di un luogo altro, un uni-versum dove nessuna identità si debba appiattire sull’altra ma anzi si arricchisca dell’altra, finalmente privata di confini e frontiere da difendere e/o superare” (estratto dal libretto di sala). L’ibridazione dei generi espressivi costituisce dunque un metodo per indagare e dare a vedere quanto le identità di genere trascendano i confini imposti dalle categorie binarie maschile/femminile essendo quindi sempre in una certa misura delle trans-identità variamente declinate lungo un continuum.

Le forme espressive ibride, ondivaghe, itineranti, sono dunque un modo per interrogare il tema del genere come viaggio, come atto di costante attraversamento del confine tra maschile e femminile, come effrazione di una frontiera di illusoria naturalità, come illusoria è la naturalità di un paesaggio. Il movimento nello spazio entra quindi spesso in gioco nei film che tematizzano le transidentità intese in senso ampio come percorsi di vita e di genere dinamici in cui il sesso assegnato alla nascita non corrisponde all’identità di genere vissuta. Questo sin da Priscilla la regina del deserto (1994) e Transamerica (2005). Uno dei più interessanti film recenti con protagonista una persona trans, ovvero Tangerine di Sean Baker (2015), associa i concetti di transito-attraversamento-trasformazione lasciando intuire un nesso politico tra il movimento del personaggio trans e quello che compie la collettività che con esso può identificarsi (il movimento inteso come gruppo). L’implacabile Sin-Dee attraversa Los Angeles con vari mezzi di trasporto per cercare il suo uomo che pare l’abbia tradita mentre lei era in carcere. La sua avanzata attraverso la città inizia come una ricerca di verità e di vendetta ma si trasforma progressivamente in una marcia di fierezza e di riscossa (un pride?) che le permette di riconquistare la stima di sé, di fare chiarezza sulle alleanze possibili e di distinguere tra affetti sinceri ed effimeri.

Proseguendo sul filo di questa metafora tra spazio e genere, Crossing cioè Passaggi è anche il titolo del memoir con cui l’economista Deirdre N. McCloskey nel 1999 ha raccontato la sua transizione (l’editrice Transeuropa ha tradotto il libro in italiano con il titolo Passaggi. Da Donald a Deirdre. Un viaggio in tre atti ai confini dell’identità nel 2008). La storia di Donald poi divenuta Deirdre è incredibilmente simile ad alcune delle premesse della serie tv Transparent: un docente universitario statunitense in età avanzata, matrimonio e figli, passione nascosta da una vita per il travestitismo, intraprende il lungo percorso che lo porta a passare il confine tra maschilità e femminilità. La serie però non è ispirata alla storia di McCloskey bensì a quella della sua autrice Jill Soloway, figlia di genitore trans, e infatti le due vicende hanno esiti distinti: Deirdre racconta una trafila consistente di perizie psichiatriche e interventi chirurgici (corde vocali e ossa della fronte comprese) che la portano a una completa riassegnazione del sesso mentre al personaggio televisivo di Maura non viene concesso di intraprendere l’impresa chirurgica per via di problemi cardiaci. Nell’ultimo episodio della serie, Maura si imbarca su una nave da crociera (un mezzo di trasporto ma allo stesso tempo un luogo di sosta) insieme ai figli e all’ex-moglie appena dopo aver ricevuto il diniego del chirurgo. Il viaggio diventa per lei un’occasione di rielaborare il “no” opposto dalla legge medica al suo desiderio e di radunare le energie mentali, simboliche e spirituali che le servono per imparare a essere una persona di frontiera. Per Maura si tratta innanzitutto di ripensare il suo immaginario soggettivo, di elaborare una nuova estetica del sé a beneficio proprio e dello sguardo altrui. Il primo passo che compie è dismettere i panni della signora elegante e gettare via le protesi ai glutei, come se quella femminilità fosse una messa in scena che si giustificava per lei solo come promessa di uno stato a venire. La nuova Maura nasce nel negozio di abiti in cui una commessa molto giovane e compassata, per nulla stupita dal suo aspetto fisico un po’ maschile un po’ femminile, la autorizza a indossare un completo sportivo spiritoso che “va bene per chiunque”. Maura inizia a non doversi più schierare da una parte o dall’altra della linea divisoria tra maschile e femminile, comincia a portarsi nel mondo al di là del suo apparato sessuale e a rappresentarsi come genere a sé stante e transeunte.

C’è qualcosa che riesce ad essere allo stesso tempo futuribile e antichissimo nelle transidentità, un rapporto tra temporalità diverse che ci porta a riflettere in modo radicale su ciò che è umano. Per questo nell’indagine sul genere la chiave mitica si è spesso rivelata molto proficua e non a caso scelta da pensatrici e creatrici d’avanguardia nell’arte come nella vita quali Virginia Woolf (Orlando e non solo), Jeanette Winterson (Weight), Monique Wittig (Les guerrillères, Virgile, non) e Lina Mangiacapre (si veda il film di Nadia Pizzuti Lina Mangiacapre. Artista del femminismo). Tale chiave accomuna due opere che, ciascuna a proprio modo, ibridano linguaggi, forme del cinema e della videoarte, realismo e finzione per mettere a tema le transidentità. La prima è Amours et métamorphoses di Yanira Yariv (2014) che rivisita le Metamorfosi di Ovidio in un’indagine sulla ricerca dell’amore oltre i confini preordinati delle identità e delle sessualità normate. Il film, girato tra le campagne laziali e le dune di Sabaudia, intesse le storie della vergine Callisto, di Circe, di Glauco diventato tritone, della naiade Scilla, del giovane Ermafrodito (interpretato da Ondina Quadri) o della ninfa Salmace con le riflessioni sentimentali delle stesse persone, ciascuna trans a proprio modo, che interpretano tali personaggi con momenti di grande intensità. A fare da filo conduttore è la parola poetica di Ovidio affidata alla voce e al corpo dell’attore Andrea Vergoni.

Sempre Ovidio è annoverabile tra le fonti mitiche di TIRESIA (un personaggio in tre corpi) di Daniele Pezzi presentato al 53° Festival di Pesaro nella sezione Satellite. Come il Tiresia delle fonti antiche, che vive diverse trasfigurazioni di genere nell’arco di una vita lunghissima che lo rende mediatore tra le generazioni e tra vivi e morti, anche nel film di Pezzi assistiamo a tre successive trasmutazioni. L’identificabilità di genere si rarefà nel passaggio di quest’anima errante dal corpo di una fotografa a quello di un performer transgender (il magnetico Emmanuel Fuentes) a quello di un viandante senza volto. Tiresia trascende tutte le frontiere che presiedono il sistema simbolico e normativo della società umana e per questo è considerato una figura allo stesso tempo divina e fuorilegge. Gli dei si sentono sfidati e traditi dalle sue capacità divinatorie mentre gli umani non lo riconoscono come parte della comunità per la sua immortalità, di conseguenza Tiresia incute deferenza ma è anche oggetto di repressione, insulto e discriminazione. “Io sono lo strambo, il viscido, il travestito, l’emarginato, il trasgressivo, il femminista, il piantagrane, il selvaggio, lo straniero, il nomade, il mutante, lo sciamano, il criminale, il ribelle, il pioniere, il rivoluzionario, l’alieno, lo spirito doppio, il contrabbandiere. Ed eccomi qui a fuggire sospinto dal vento della storia” recita la voce off sulle immagini di un corpo che valica i Pirenei. Tiresia passa dunque il confine come un clandestino, lasciandosi alle spalle la garitta abbandonata di un’inutile dogana. Daniele Pezzi sintetizza un percorso di riflessione molto ricco su soggettività e politica in un lavoro di grande purezza formale particolarmente denso sul piano del suono, in cui il rapporto tra immagini e parole tesse legami originali tra passato e presente come nella scena in cui nella libreria tolosana che fu di Silvio Trentin negli anni dell’esilio si svolge un animato confronto sulla crisi della democrazia contemporanea. Perché pensare, ripensare, o meglio, “spensare” il genere come auspicato dalla teorica Christine Delphy, è un’impresa di liberazione fondamentale di spazi di manovra per chiunque voglia davvero cambiare il mondo.