Fedele alla lezione del reale, il cinema di Jonas Carpignano dischiude tutta la franchezza del proprio sguardo nella capacità di costruire momenti di potente sintesi visiva. In Mediterranea, suo primo lungometraggio di finzione, la realtà deflagra proprio a partire dall’immagine dei migranti che, in silenzio, ondeggiano dispersi su una grande boa in mezzo a un mare per loro straniero.

Sviluppato da un pool di produttori e finanziatori internazionali, Mediterranea segue i tempi e le situazioni della tratta più discussa del nostro periodo storico: la migrazione clandestina dall’Africa alle coste italiane, attraverso il lembo di Mare Mediterraneo che le separa.

I protagonisti, o almeno quelli su cui Carpignano sembra focalizzare maggiormente l’attenzione all’interno di un gruppo che cresce e diminuisce durante il viaggio, sono Ayiva e suo fratello. Partiti dal Burkina Faso, dove Ayiva ha lasciato moglie e figlia ancora piccola, i due vivono le giornate di attesa e gli improvvisi cambi di rotta tra la speranza di ottenere un posto sul barcone di turno e il timore di aver superato un punto di non ritorno. Recuperati dalla guardia costiera dopo un naufragio apparentemente fatale, approdano finalmente in Italia. Tendopoli abusive, piccoli mercati neri e tanto lavoro negli agrumeti sembrano l’unico futuro possibile per tutti i migranti, con un solo sostegno su cui poter contare: la solidarietà tra consimili.

La gente di Rosarno, il paesino calabrese che fa da sfondo alle vicende e ancora tornerà nel cinema dell’autore, si polarizza tra le associazioni impegnate in aiuto dei nuovi arrivati e l’insofferenza poco controllabile dei cittadini, che sfocerà nella violenza di un epilogo in cui ai singoli spetterà decidere come comportarsi, alimentando il desiderio di integrazione o la rabbia di chi è oppresso.

Per quanto lineari nello sviluppo di una trama fedele ai fatti ormai ben noti, in Mediterranea le vicende non assecondano l’indolenza di uno spettatore abituato alle immagini “forti” e immediate della cronaca, ma anzi si pongono, pur nella loro natura finzionale, come suoni radicali e originari di cui le immagini dei servizi giornalistici televisivi sono soltanto l’eco che arriva alla nostra vita di ogni giorno. Lontana dalla retorica e dall’ideologia, la vicinanza che Carpignano riesce a sostenere nei confronti dei corpi dei protagonisti produce un documento credibile e problematico per lo spettatore, che non può fare a meno di entrare in empatia con i personaggi del racconto.

Il felice esito di un’operazione che pone al centro l’attualità in tutta la sua più controversa flagranza è motivata soprattutto dal rapporto personale che Carpignano instaura con i suoi (non-)attori, arrivando a far parte delle loro vite in maniera così profonda da riuscire a subordinare una piccola macchina-cinema al primato della quotidianità, in una simbiosi fisica che non cela, al contempo, un necessario distacco emotivo.

Lezione, questa, che riscopriremo in A Ciambra, dove lo spettatore ritrova uno dei personaggi più riusciti di Mediterranea, il ragazzino rom Pio. Una conferma che per Carpignano pratica di cinema e pratica di vita si declinano in parallelo al fine di convergere, influendo, quand’anche con le esitazioni degli esordi, sul linguaggio che il giovane regista adotta per raccontare il proprio, e il nostro mondo.