Riparatore di ombrelli, contadino, pastore, barbiere, muratore, minatore, giardiniere, clown e mago: questi sono i numerosi mestieri svolti da Silva nel corso della sua vita. Li nomina uno dietro l’altro, con una voce assente all’interno di una casa vuota. I suoi passi lo riportano in un paese sperduto e quasi spopolato nel Portogallo rurale, con un sombrero ricamato sul capo, stivali da cowboy e un fagotto bianco sulla spalla: un vagabondo dallo spirito dandy. Ignorato dal resto degli abitanti del villaggio, una ragazzina sembra interessarsi alle sue storie e al suo spirito avventuriero.

A metà tra documentario e western crepuscolare, Rio Corgo, primo lungometraggio di Maya Kosa e Sérgio da Costa (rispettivamente nati nel 1985 e 1984) sembra portarci nelle atmosfere tipiche del cinema di Lisandro Alonso, laddove negli echi silenziosi di un villaggio abbandonato prende vita la magia del racconto di un passato avventuroso e la ricerca, costante e incompiuta, di un nuovo approdo. Il film rimane sospeso in una condizione errabonda, dove l’idea del viaggio si fa già latente nel suo processo creativo: è proprio dal ritorno nella regione di Trás-os-Montes, nel nord-est del Portogallo, da dove emigrò la famiglia del co-regista Da Costa, che Rio Corgo comincia a prendere vita. La figura di Silva (Joaquim Silva) è l’incarnazione perfetta di un desiderio di ritorno, di trasmissione di un passato – già – perduto, nei cui ricordi non sopravvive che un alone stravagante e picaresco.

La geografia di Trás-os-Montes, una delle regioni maggiormente caratterizzate dall’emigrazione e dallo spopolamento, laddove sopravvivono tradizioni popolari altrove perdute, accende la miccia del desiderio filmico di Kosa e Da Costa. Distante dal Portogallo rurale di Aquele querido mês de agosto di Miguel Gomes (la casa di produzione A Som e A Furia, che ha prodotto i film del regista lisboeta, è peraltro coproduttrice minoritaria di Rio Corgo), raccontato al tempo presente con uno spirito iconoclasta che spoglia l’aura mitica dei gruppi pop estivi alla ricerca di una narrazione autentica, Rio Corgo eleva ogni elemento identitario a un simbolismo leggendario, prossimo al feticcio. Una narrazione al presente di un passato mitico, che richiama ancora una volta il cinema di Gomes, in questo caso nel rapporto stabilito con la materia esotica e coloniale nel secondo capitolo di Tabu, il “paradiso perduto” di Ventura.

Il personaggio di Silva sembra impersonificare per i giovani autori il desiderio di quel Portogallo mitico e a loro sconosciuto che forse aleggiava nei racconti degli emigrati di prima generazione, nei focolari notturni nelle serate estive trascorse nei villaggi d’origine, nelle collezioni di musica pop che abbondano nella colonna sonora del film, forse ancora oggi più facili da reperire negli scaffali delle case delle famiglie emigrate in Francia e in Svizzera che nei negozi di dischi di seconda mano a Lisbona. Un bagaglio di ricordi, suggestioni, esperienze, che per gli abitanti del villaggio di Silva sembrano avere poca importanza. I suoi compaesani non lo accettano, o lo ignorano mentre trascina i suoi passi lenti e faticosi nei vicoli silenti del paese. Solo la ragazzina (Ana Milão) sembra essere affascinata dai suoi racconti. È preminentemente questa posizione di ascolto della giovane co-protagonista quella assunta in un primo momento da Kosa e Da Costa: le leggendarie avventure di Silva, alcune con risvolti romantici e tragici, i giochi di prestigio, lo stato di perenne inquietudine e il suo peregrinare inarrestabile sono prima di tutto oggetto di fascinazione che materia, a sua volta, di racconto. Essi raccolgono il testimone di un’eredità, divenendo custodi privilegiati di una storia epica da tramandare, come quelle che chissà nella loro infanzia popolavano l’immaginario dei racconti di quel paese lontano che i loro genitori – o chi prima di loro – dovettero lasciare.

È in questo scarto tra fascinazione e racconto, dove convivono l’ascolto e l’immaginario pregresso del Portogallo desiderato, che ribolle la capacità visionaria del duo registico (Maya Kosa, principalmente dedita alla scrittura e alla direzione dei personaggi, Sérgio da Costa dietro la macchina da presa): i fantasmi, le crisi e le visioni di Silva prendono vita sullo schermo in un continuo ribaltamento di fronte dove il confine tra realtà e finzione appare sempre più labile. La vita di Silva, apparentemente giunta al capolinea, non sembra che essere un insieme di racconti: veri o falsi che siano, essi sono diventati spina dorsale del suo vivere. Rio Corgo rende conto di quest’esistenza vissuta al limite, tra infinite camminate e incontri fantastici, lavori umili, amori malinconici e imprese da romanzo.