Mentre la moltitudine vile dei venditori

investe dollari nel cinema servile

sotto la frusta di quel boia ch’è il Denaro …

« … degli artisti lavorano, all’oscuro, pazienti (o impazienti) »: artisti nel senso inteso da Olivier Renault d’Allonnes, permanentemente insorti, creatori marginali, volontariamente o no, contro i quali appaiono censure di ogni sorta che pesano sugli individui che praticano un’arte. L’artista è colui grazie al quale « il sistema sociale può essere sorpreso a funzionare, al massimo, contro sé stesso », per dirla in poche parole, e semplicemente perché il suo intento è quello di essere un esploratore insaziabile, uomo del « tutto possibile », provocatore di scandalo e, spesso, soggetto all’isolamento e alla repressione.

Fra questi, con una scomodità tipica delle situazioni ambigue, portatrici al tempo stesso di fallimenti e di successi, Marcel Hanoun. Uomo d’immagini, e tuttavia, spesso diffidente verso le immagini, melomane che talvolta lascia ricoprire alla parola la musica, distruttore del racconto che non si lascia raccontare, vicino e lontano a Bresson, realista e incantatore, figlio di Lumière e di Méliès, semplice e ricercato, classico ed eccessivo, denso e troppo lento, formalista enigmatico, teorico e ingenuo, autodidatta ma vicino a Brecht e Ricardou, fotografo, cameraman, montatore, regista, autore di film poveri che scintillano, opere imperfette che colpiscono per lunghi e magnifici minuti, capolavori di un cineasta « maledetto » ma consacrato, senza un suo pubblico ma visto e conosciuto in tutto il mondo, marginale ma senza dubbio uno dei due o tre registi francesi di oggi destinati a durare. Rischiamo questo ritratto giusto e ingiusto dell’autore di Le Printemps, L’Automne e La Verité sur l’imaginaire passion d’un inconnu.

Dopo Une simple historie (1958), Le Huitième Jour (1959), Octobre à Madrid (1965), L’Authentique Procès de Carl-Emmanuel Jung (1967), L’Eté (1968) e L’Hiver (1969), e in relazione con i precedenti, Le Printemps (1970) è uno dei rari film che dialogano con i romanzi più moderni (quelli di Butor, Simon, Ollier, Ricardou). Un film che si richiude in sé stesso, come la panoramica orizzontale a 360 gradi che lo termina. Un film pieno di analogie, di corrispondenze, di auto-citazioni. Soprattutto, un film che nasce da un pretesto, un fatto di cronaca, che rimane un pretesto e in cui l’essenziale sta in ciò che Barthes definisce catalisi, ossia tutti gli elementi che non servono direttamente al racconto, ma al contrario lo rallentano (e lo stravolgono). Hanoun passa il tempo a distanziare il film dal romanzo e ad avvicinarlo alla pittura e alla musica. Come aveva fatto anche ne L’Hiver, girato a Bruges: il senso della semplicità della vita di campagna, la meraviglia contenuta in un gesto, un volto, un parlare radicato nel terreno di una tradizione suburbana, illuminato dalla luce naturale, viva e diretta di una stagione. Le Printemps è una sorta di liturgia delle ore. Il coniglio scuoiato, il mangime ai pulcini, la nonna mentre prepara una torta, la ragazzina mentre fa il bagno, beve il caffellatte o mangia la zuppa; o ancora macchiata del sangue delle sue prime mestruazioni (e la nonna, senza aprire bocca, che l’aiuta a cambiare la camicia da notte): una serie di inquadrature che ricordano dei Vermeer o dei Le Nain (o dei Balthus?). Altra cosa da non dimenticare: Hanoun affida spesso al suono un ruolo più capitale dell’immagine. Pochi sono i film in cui il lento tic-tac dell’orologio ha una presenza così essenziale. Hanoun attinge allo spessore e alla crudezza delle cose, in un modo ben più affettato rispetto ai « realisti » del Quebec (Brault, Perrault) o ungheresi (Judith Elek), ma non per questo meno affascinante (penso addirittura che lo sia di più, perché laddove loro e altri amatori del cinema diretto procedono troppo spesso a posteriori, lasciandosi guidare e talvolta soggiogare dal flusso di immagini registrate, Hanoun costruisce a priori).

La cosa più stupefacente è che nel film successivo non resta quasi niente di quanto detto, film il cui titolo è vicino, e viene scelto, all’interno della stessa gruppo verbale, come a suggerire l’unità musicale di un’opera in constante metamorfosi. Un regista e la sua assistente filmati per un’ora e mezza con piani fissi di fronte a ciò che stanno guardando, lo schermo di un tavolo di montaggio: L’Automne (1971). Nella storia del cinema, pochi sono i casi di film tanto privi di materia, riprendendo un termine del diciassettesimo secolo, o che si avvicinano tanto al libro « sul niente » vagheggiato da Flaubert, libro « senza soggetto o dove il soggetto sarebbe quasi invisibile ». L’Automne ha un soggetto: se stesso. D’altronde, se seguissimo le orme dei gioiosi amatori di giochi di parole che formano oggi la nostra avanguardia filosofica, si potrebbe dire che, a suggerirlo, è il titolo stesso: con una pertinenza propria di Socrate che disserta nel Cratilo sull’etimologia di Eros o di Apollo (in altre parole, con molta fantasia), potremmo sostenere in effetti che ne L’Automne è presente auto. È evidente che il film di Hanoun colpisce prima di tutto per il suo aspetto non tanto autobiografico quanto quasi autista, cosa non frequente al cinema. Il cinema non è fatto, e ce l’avranno ripetuto abbastanza, per raccontare? E il racconto più puro non è quello (vedi Benveniste) in cui « il narratore diventa invisibile »? Hanoun invece è uno di quelli – e si contano sulle dita di una mano –  che si ostinano a mostrare il narratore, o scandalosamente, solo il narratore. L’Automne o: ritratto del cineasta da cineasta. Scelta in concomitanza con una tendenza assai attuale: quella di alcuni testi contemporanei in cui l’enunciato conta meno rispetto alla modalità di enunciazione. Ci sono epoche in cui il primato va al racconto, alla parola – epoche mitiche – e altre dove si demistifica, interrogandosi sulle condizioni di possibilità del discorso (dopo Omero: i sofisti e Socrate. Dopo Balzac e Zola: Valéry e Blanchot. E forse, dopo Griffith: Vertov. Dopo Hollywood: Godard, Hanoun…).

Quindi, il narratore. Prima di tutto, va da sé, come uomo, come attante. Non occorre attardarsi sull’apparenza aneddotica del film – la nascita di una relazione tra il regista (Michel Lonsdale) e Anne (Tamia), la sua assistente: una frivolezza alla Franche Dimanche o Communications 8. Ma soprattutto il narratore in quanto individuo che si interroga sulle ragioni del suo racconto, di ogni racconto e, poiché si tratta di un regista, sul cinema in generale. In quanto individuo che si interroga sulla propria arte. Per tutte queste ragioni L’Automne è una dichiarazione di ars poetica.

Legittimo quindi temere un film chiacchierone: certamente L’Automne non è un film muto. Frammenti di conversazione, nel campo o nel fuoricampo, aneddoti, battute che danno talvolta al dialogo una parvenza di diario orale. Spesso, come viene detto nel film, il tono è quello di un manifesto. Cosa si proclama? Che il cinema non deve raccontare; specialmente storie di gangsters. Che « Yvetot, come scriveva Flaubert, vale quanto Costantinopoli » (lettera del 25-26 giugno 1853 a Louise Colet). Che un film può essere come un concerto di Bach, un’equazione di matematica o il libro di Flaubert « sul niente » e che « starebbe in piedi solo per la forza interna del suo stile »  (lettera del 16 gennaio 1852 a Louise Colet). Che il cinema deve essere « arte della sottrazione e della distanza », non d’identificazione o di fantasma; che il cinema pornografico e il cinema politico (Hanoun pensa esplicitamente ai film « politici » commerciali del dopo ’68), fusi nella categoria – tutt’altro che lusinghiera – del pornolitico, sono in ugual misura detestabili. Insomma, un dialogo spesso polemico, o meglio, non sempre indiscutibile nel tenore, né sempre irreprensibile nella forma. E tuttavia, il dialogo non è l’elemento più importante. Se è vero che l’ars poetica di un architetto non sta in ciò che dice, ma è ciò che costruisce, di un regista starà non nelle parole ma ciò che fa con la pellicola.

Cosa fa Hanoun con la pellicola? Non arriva a filmare con la purezza e la semplicità di Sharits o Landow, giovani registi americani piuttosto ascetici, ma la colloca al centro – nel cuore – del suo film: noi spettatori non possiamo più prescindere da essa così come il lettore di Coup de dés non può prescindere dalla pagina di Mallarmé. Due volte presente (o due volte nascosta): la prima dietro di noi, nel proiettore, la seconda davanti, invisibile oggetto dell’attenzione dei « personaggi ». L’autismo del film è duplice, e porta contemporaneamente (come direbbe Hjelmsev) sul contenuto (un regista filma il suo doppio) e sull’espressione (la pellicola registra una storia di pellicola). Ci si potrà riferire allora, a proposito di questo film che ha per soggetto un film, ai libri che hanno come soggetto un libro, di cui la modernità è avida (modernità che bisognerebbe far risalire almeno a Tristram Shandy o Jacques Il fatalista ). O pensare anche all’humour di Paludi – libro in cui il narratore, che somiglia a Gide come un fratello, non fa altro che ripetere: scrivo Paludi.

Gli eroi di L’Automne, dal canto loro, non fanno che ripetere una cosa: facciamo (o, meglio, montiamo) un film che si chiama Juliette Sacrifiée. Questo film in progress non è totalmente ipotetico: Julien e Anne ne evocano con precisione alcune sequenze; ne ascoltiamo la musica e un pezzo di dialogo; alla fine, ne vediamo addirittura un frammento (lo stesso accade in Paludi, dove c’è qualche passaggio del libro che l’autore sta scrivendo). Il frammento finale (piano 121 e successivi) è di un’ambiguità ingegnosa: comprende innanzitutto un piano a colori di un bosco, girato in America del Nord. Un rapido travelling laterale, corrispondente a quello che vedrebbero i passeggeri di un’auto in movimento. Seguito da un primo piano di Tamia in bianco e nero, poi da un altro di Michael Lonsdale. I loro volti, illuminati lateralmente da bagliori mobili, potrebbero essere non più quelli di Anne e di Julien nella sala di montaggio, ma quelli di Juliette e Jean-Marie, personaggi di Juliette sacrifiée, nell’automobile da dove si scorgono gli alberi « gialli, rossi e verdi ». Queste inquadrature (ripetute d’altronde più di una volta) determinano, per la loro ambivalenza, una sorta di slittamento del film nell’altro film (del film contenente nel film contenuto) – slittamento che sottolinea anche il passaggio, nella penultima inquadratura, dal bianco e nero al colore. Slittamento che diventa sottile assimilazione nell’inquadratura dell’assistente che decide di tagliare il primo piano con progressivo zoom in cui è stata appena ripresa. Senza rottura, il film in cui si monta e dove si parla è diventato il film che si monta e di cui si parla. Più che una struttura circolare, bisognerebbe evocare il famoso anello di Moebius – anello a due facce comunicanti – e un regista che Julien non include tra i suoi registi preferiti ma che utilizzò per primo questa struttura: Dziga Vertov, in L’uomo con la macchina da presa.

L’Automne, prosegue peraltro il superbo lavoro di « decostruzione » de L’uomo con la macchina da presa. In questo senso, il film è politico perché ci mostra quello che normalmente viene nascosto e fa di noi, per così dire, suoi aiuto-registi. In questa sorta di democrazia creatrice (o se si preferisce di dispotismo illuminato), in questo svelamento che disillude ma demistifica, è presente un partito preso che si ritroverà in Brecht.

Il film ci riconduce anche ai registi del New American Cinema: come loro, e in un modo forse meno austero, sono le grandi operazioni o i grandi a priori del processo filmico che Hanoun mette in scena (e da molto tempo: da non dimenticare Octobre à Madrid,L’Hiver). Laddove Warhol si serve instancabilmente del piano fisso ininterrotto (Sleep, Empire) o Snow dello zoom in avanti e della panoramica (Wavelenght, < – – – – – – – – >, La Région centrale), Hanoun gioca sul passaggio dal bianco e nero al colore, sui rapporti suono-immagine e soprattutto sulla frattura tra regista/spettatore. Di norma un film riposa sull’invisibilità reciproca tra regista e spettatore. Qui invece passiamo un’ora e mezza a guardare un regista che ci sta guardando. Siamo il contro-campo di un film che è il campo (o il contrario).

Certamente questi due sguardi opposti non si corrispondono, ma mirano allo stesso punto. Il loro oggetto virtuale è diverso, ma l’orizzonte (nel senso etimologico) è lo stesso: uno schermo – rettangolo per la prima volta a due facce, specchio senza foglia  di stagno attraverso il quale si accede al latente cinematografico. Eisenstein si domandava come rappresentare un’astrazione nel cinema. Hanoun, con questo film, caso limite, e d’altronde in tutta la sua opera, che bisognerà prima o poi sottrarre dall’ombra, dimostra che esiste almeno un’astrazione che il cinema può far sentire: la nozione stessa di cinema. Esemplare, proprio per l’esplorazione di questa nozione, più che per il suo contenuto, seppure invadente, è il film successivo: La Vérité sur l’imaginaire passion d’un inconnu (1973).


[traduzione di Giulia Longo]