In occasione della rassegna del Carbonia Film Festival “How to film the World”, una giornata è stata dedicata alla masterclass del cineasta statunitense Ben Russell e alla proiezione del suo ultimo lungometraggio, Good Luck (presentato in concorso al 70° Locarno Festival e al 58° Festival dei popoli), ulteriore punto di maturazione della sua ricerca etnografica in cui ritrae due comunità di minatori ai lati opposto del mondo: nelle profondità di una miniera statale serba e in una miniera illegale d’oro in Suriname.  Partendo dalla sua esperienza di filmmaker e d’insegnante di cinema, Ben Russell durante l’incontro ha parlato della sua formazione e ha delineato la sua posizione rispetto all’atto di filmare il mondo e di produrre di immagini oggi. Lasciamo la parola a Russell, riportando alcuni momenti dell’incontro, raccolti in una serie di concetti chiave.

ARTISTA

Preferisco definirmi artista più che cineasta, malgrado la mia pratica sia quella del cinema, però non mi interessa il cinema narrativo, il racconto delle storie, non mi interessano in maniera particolare i personaggi; ecco perché preferisco definirmi artista più che cineasta. La mia pratica cambia in base al progetto che intendo realizzare, e il progetto di cinema a sua volta dipende dalla disponibilità di finanziamenti, da dove si trovano questi finanziamenti, da quanto tempo posso avere a disposizione per realizzare un determinato progetto e da chi posso permettermi di avere al mio fianco per lavorare al film. Credo sia una situazione comune a molti paesi, probabilmente lo è a maggior ragione negli Stati Uniti, che sono tra i paesi che tradizionalmente non hanno finanziamenti pubblici per la cultura, o che quantomeno ne hanno in termini molto limitati, ma di fatto la condizione protettiva condiziona la possibilità di produrre immagini, questa è una realtà di fatto con cui dobbiamo fare i conti.

POTERE

Ho capito un elemento fondamentale subito, appena iniziato a formarmi sulle immagini, ovvero che le immagini sono uno strumento di potere. Nella rappresentazione che noi scegliamo di instaurare con un determinato soggetto è inevitabile stabilire un rapporto di potere tra l’autore che sceglie di presentare determinate immagini e il soggetto di queste stesse immagini. È evidente a tutti quello che sto dicendo, c’è una teoria post coloniale che addirittura dice che non dovremmo più produrre immagini proprio per il rapporto di potere e l’arma che costituiscono, pensiamo al modo in cui sono viste relativamente alla moda, o come viene presentato il rapporto degli uomini rispetto al loro corpo, o i profughi che non vengono rappresentati nella situazione di tragedia nel loro paese ma solo a bordo di imbarcazioni nel tentativo di andare verso l’Occidente. Il modo con cui presentiamo le immagini del mondo riflette il nostro modo di vederlo e di comprenderlo e impone inevitabilmente un imperativo di tipo etico.

CONOSCENZA

Ricollegandoci al discorso del potere dell’autore, si tratta di un potere che tutti noi possiamo prendere dalla conoscenza, ma questa può essere di diversi tipi. Nel caso del film River Rites è una conoscenza rispetto a questo gruppo di persone e alla popolazione del Suriname, che sono schiavi e sono fuggiti, che hanno vissuto nella giungla per cento anni e sono arrivati a stabilire questo tipo di condizioni di vita. A quel punto con queste informazioni voi sapreste delle cose, ma vi aggiungerebbe ben poco alla comprensione, perché la comprensione della realtà (e in questo senso il cinema è un veicolo perfetto) ha a che vedere con l’empatia e con il sentire; il cinema è un veicolo particolarmente adatto nel momento in cui declina l’elemento del tempo, oltre a quello dell’immagine.

ARTIFICIO

Nel cinema ogni cosa è costruzione. La scelta di che cosa inquadrare e cosa non inquadrare, di come inquadrare il soggetto, sono tutte scelte operate al fine di costruire immagini in un film, il montaggio è fatto di proprie scelte e di cosa si decide di escludere nel risultato finale, queste scelte sono significanti e hanno importanza per poter fare un film come lo si vuole. Non utilizzo mai il termine documentario, preferisco usare il termine “non-finzione”, perché è più adatto all’elemento di artificio che ogni film contiene, perché la parola costruzione applicata al cinema è assolutamente accettabile, in River Rites c’erano tre persone dietro la macchina da presa: il regista, l’operatore di macchina e l’ingegnere del suono. Non si può pensare che ci sia una naturalezza nell’attività che viene rappresentata sullo schermo, nel momento in cui c’è la presenza di queste persone. Quindi ogni cosa è innaturale nel cinema, ma non per questo meno magica.

CONTEMPORANEO

River Rites è stato ambientato in quel particolare luogo del Suriname e la musica che interviene a un certo momento del film è stata composta dai Mindflayer, che io conosco dai tempi dell’università, ed è stata composta contemporaneamente alle immagini, al punto da dare impressione di contemporaneità tra il suono e le immagini stesse dell’attività che si vede nel film. Il mio pensiero è proprio relativo alla contemporaneità e al presente, credo che un artista possa riflettere ed esprimersi soltanto sul presente e non sul passato o sul futuro, ma questo presente è un concetto ampio. Ho la fortuna di viaggiare molto e ho una comprensione simultanea di elementi di spazio che posso essere logisticamente e geograficamente molto lontani. Come in Good Luck, ho girato per due mesi in Serbia e in Suriname, due regioni molto lontane ma che per me appartengono allo stesso arco di spazio temporale.

ESPERIENZA

Black and White Trypps Number Three è il primo film in cui ho avuto la piena consapevolezza dell’importanza di parlare del presente, ed è la prima volta che ho girato un film esattamente come lo volevo ed è molto meglio di quanto io stesso potessi immaginare. Questo ha a che vedere con il mio concetto di non-finzione rispetto all’utilizzo del termine “documentario”, nel senso che il mio modo di lavorare fino a quel momento era quello di avere delle idee da sviluppare, e io ho capito  che forse il luogo dove intendo sviluppare delle idee ha delle idee migliori  rispetto a quelle che ho io, perché il ragazzo che suda profusamente negli ultimi minuti del film è un soggetto che non avrei mai potuto immaginare di trovare. Questo progetto è nato con l’idea di documentare un concerto ed è diventato qualcosa di molto più interessante nel momento in cui c’è la possibilità di fare esperienza del concerto stesso. Nel momento in cui ho scelto di riprendere al rallentatore, il suono si è aperto ed è debordato rispetto a com’era prima, e perciò la seconda parte del film riprende in modo diverso il suono della prima. Il tempo non è l’unico soggetto ma è il modo in cui entriamo nel cinema, la dimensione tempo comporta il tempo dello spettatore che è in una fase temporale precisa che inizia con l’esperienza cinematografica, e il cinema deve avere questo movimento per riuscire a catturale lo spettatore, ad accoglierlo nella sua dimensione spazio-temporale, ed è il motivo per cui questo film è costituito da una prima parte che ha il ritmo del tempo reale e che spinge chi lo vede a percepire una sorta di impazienza, per poi lentamente portarlo (attraverso lo scarto temporale dato dallo slow-motion) in un altrove dove non ha più la percezione e la consapevolezza che aveva prima. Per me il tempo deve essere qualcosa che ti abbraccia e ti trascina in un luogo, e ti trattiene in questa sua dimensione.

CINEMA/CORPO

È stato il quel periodo che ho cominciato a riflettere sulla presenza della fisicità del corpo. Quando vivevo a Providence seguivo tantissimi concerti come questo, concerti molto eccessivi, e mentre lavoravo ad un film di finzione sentivo che c’era qualcosa che non funzionava. La mia riflessione è iniziata proprio sul pensare alla sensazione di estasi, di condivisione del corpo, di sentire il corpo nel momento in cui si è ad un concerto. Avevo il desiderio di riprodurre quelle stesse sensazioni con il cinema, che è un mezzo che di per sé non consente nulla di tutto ciò, ma mi sono reso conto che la strada che avevo intrapreso verso il cinema era sbagliata e ho cominciato proprio a pensare come un film potesse riprodurre delle emozioni analoghe a quelle del concerto, pur nell’impossibilità del suo essere un mezzo statico, che non può danzare come può invece fare un corpo che si lascia andare. In ogni caso tutta l’elaborazione successiva che ho fatto in merito allo spazio-tempo della luce e del suono ha proprio a che vedere sul tipo di percezione di cui ciascuno di noi può fare esperienza in un contesto del genere e che io volevo riuscire a riprodurre anche con delle immagini cinematografiche.

GOOD LUCK

Tutto ciò di cui ho parlato si ritrova poi in Good Luck. Questo film è appunto ambientato in due contesti diversi: in una miniera di rame statale serba e in una miniera illegale d’oro in Suriname. Quindi mostro solo i minatori, non per il tipo di lavoro che compiono ma per le persone che sono, dal momento che a me non interessa incentrare un film su un personaggio, ma perché di fatto lo spazio del lavoro diventa significante rispetto alle persone che sono e alla loro esperienza esistenziale. In Good Luck, dopo aver trascorso un mese in Suriname e un mese in Serbia, ho dovuto aspettare affinché quelle immagini diventassero immagini scisse dalla dimensione dell’esperienza che io ho fatto per catturarle. Questa questione si riaggancia a quella etica, perché l’autore può avere l’autorizzazione di filmare una persona, e di quello che ha filmato può fare quello che vuole, ma non è detto che poi quella parte di mondo incarnata in quella persona riesca a tradursi bene in quanti immagini. È importante adottare un atteggiamento che tenga conto di un giudizio obiettivo, come è necessario prendere le distanze da qualcuno che si ritiene molto vicino, come può essere un amico o un familiare. Indipendentemente dallo strumento con cui si producono immagini, che sia un Iphone o uno smartphone, è importante riuscire ad arrivare al punto da elaborare un punto di vista critico che permetta di intervenire, tagliare, spostare e scartare.

NIENTE DOGMI

Non credo nei dogmi, e quello che vi ho raccontato è perché è il risultato di un patto che io sono arrivato a fare con me stesso, che funziona ed è valido soltanto per me, perché è semplicemente il risultato della mia riflessione sulla domanda: “come si può filmare il mondo”, e la risposta che mi sono dato è questa. Rispetto benissimo chi ad esempio fa un film emotivo perché non riesce a separarsi o a prendere le distanze dal suo soggetto, se funziona così per lui.

Schermata 2017-11-03 alle 14.46.34


[la lezione si è tenuta a Carbonia, il 15 ottobre 2017; si ringrazia Francesco Giai Via]