Il confine è il luogo dove l’altro si mescola al sé e dove il sé si riconosce non unico, non esclusivo, non impassibile di mutamento o estinzione. Sul confine non c’è esistenza ma lotta, nel persistente tentativo di annullare l’altro e celebrare l’identico, il conforme, il controllabile. Non c’è proprietà che valga, lungo il confine domina l’essere e non l’avere, è la terra del cacciatore e non del mercante, del consumo e non della conservazione. È in questo spazio che la categoria pregiudicante trova il suo habitat e il suo substrato più nutriente ed è qui che la zona grigia è più sottile e debole, costretta a schierarsi e a defluire nel bianco o nero, requisito unico alla sopravvivenza come il muoversi in gruppo lo è per la preda.

I personaggi della trilogia della frontiera di Taylor Sheridan, solo sceneggiatore in Sicario (2015) e Hell or High Water (2016) e ne I segreti di Wind River anche regista, sono allo stesso tempo predatori e prede, cacciatori e fuggitivi, essi stessi personificazione del confine. Cory Lambert e Jane Banner sono rispettivamente agenti della forestale e dell’FBI, il primo esperto e sicuro, la seconda impacciata e impulsiva. Si conoscono, in piena e durissima stagione invernale, nei pressi della riserva indiana di Wind River in Wyoming, al cui ingresso sventola una bandiera statunitense capovolta, ad indicare un punto di vista che guarda al paese come in uno specchio, il solo possibilmente fedele e privo di retorica. Ma, in quanto specchio, in esso si riflette anche l’opposto insito nei personaggi, l’altro in sé che turba e scuote. Cory ha ritrovato il cadavere di una ragazza morta assiderata, senza scarpe nel mezzo di un bosco innevato, lontana più di dieci chilometri da qualsiasi luogo abitato. Natalie, di origini indiane, era la migliore amica di sua figlia, anch’essa uccisa anni prima in circostanze altrettanto misteriose: è per questo che Cory si immerge corpo e anima nel caso, dando generoso supporto a Jane che si muove a fatica in un ambiente tanto schietto e tanto privo di pietà e mediazione.

Cory è anche un cacciatore di predatori abile con le armi da fuoco, nel suo sguardo accanto al dolore c’è la determinazione. Uno dei suoi punti di forza è la capacità di seguire le tracce e sulla neve nessuno può muoversi senza lasciare tracce, quasi la natura della montagna escludesse il privato, l’ombra, il sotterfugio. Ogni azione è visibile e perseguibile, si gioca in campo aperto: chi sa guardare la neve senza distogliere lo sguardo e senza cedere a distrazioni e seduzioni umane, ha occhi soprannaturali, ha occhi divini, vede passato e presente sovrapposti. La persecuzione dei colpevoli ad opera di Cory ha così tutti i caratteri del fato e del destino e il modus operandi di chi sa mutare il caos in cosmo e viceversa. Cory colpisce da lontano, non visto e indistinguibile, veste completamente di bianco e si muove sicuro, con aspetto limpido, mentre i suoi avversari sono neri, lividi, goffi, nervosi. Sembra avere dalla sua la Necessità e il corso degli eventi: una volta trovato il colpevole non lo uccide ma lo mette in condizione di uccidere sé stesso, descrivendo minutamente cosa gli accadrà. In Cory convivono l’emozione umana e la legge naturale. «L’ho violentata» grida l’uomo a cui Cory ha tolto gli scarponi per concedergli le stesse possibilità di salvezza che aveva la ragazza. L’ha violentata perché ubriaco, perché solo, perché nella stazione petrolifera in cui lavorava assieme al ragazzo di Natalie non c’era mai nulla da fare, motivazioni che non reggono, non bastano, non colmano la misura d’odio che Cory porta dentro di sé.

Jane fa da catalizzatrice alla vicenda, ne è più spettatrice che attrice, è affascinata da Cory e dalla sua potenza e dedizione. Sul letto d’ospedale lui le legge una rivista, un articolo sui “dieci segni per capire che lui è attratto da te”. In lei tutta l’America che si crede “sconfinata”, dominante, senza alternativa, priva di luoghi di critica e dubbio, l’America con sempre Dio dalla sua parte, si scopre improvvisamente nuda. Di fronte alla rivista, prodotto-dispositivo attraverso cui il paese si autoriconosce, Jane esplode in lacrime perché si scopre simile ad essa, debole, illusa, superficiale, con gli occhi sempre chiusi alla verità e alle colpe.

Il padre di Natalie vorrebbe espiare il suo dolore coi rituali del suo popolo. Dipinge il suo volto e dice a Cory che quella è una maschera, un simbolo, il “volto della morte”, ma ammette di non sapere se è davvero quello e come va dipinto: il passato è passato, le radici sono recise. Attraverso la sua bocca parlano tutti i nativi costretti a raschiare l’ultimo midollo dallo scheletro della loro storia, un tempo vigorosa, temibile, implacabile. Gli occhi dell’America si scoprono chiusi su quel confine interiore chiamato nascita, fondazione, frontiera: guardando sé stessi vedono un paese che era esso stesso il confine, l’altro, il mutamento a cui non cedere. Ogni sostegno alla propria identità così cade e Sheridan chiude la sua trilogia su un precipizio terribile.