Tonya Harding è di quelle figure che eccitano l’immaginazione dell’America delle grandi epopee individuali, della tv scandalistica a caccia di scoop, dello storytelling che pasce sulle traiettorie esistenziali fuori dal comune. Povera, asmatica e non altissima, Harding non era certo destinata al successo né sportivo né di altra natura eppure ha scritto una pagina di storia: è stata la prima pattinatrice di figura americana ad eseguire il temibile triplo axel in gara e una delle prime a portare il mitico salto in una grande competizione internazionale. Una ragazza tosta ma sventurata, che partecipò due volte ai Giochi Olimpici (Albertville e Lillehammer) senza portare a casa nessuna medaglia, che visse l’infanzia in alloggi di fortuna ricavati dal retro di un camion allenandosi ogni giorno, che abbandonò la scuola a sedici anni per guadagnarsi da vivere, una a cui la società non solo non ha fatto mai sconti ma a cui spesso non ha neppure dato ciò che meritava.

Il biopic I, Tonya a lei dedicato non narra dunque una success story bensì il dramma di una redneck su cui la violenza e l’esclusione sociale hanno avuto la meglio malgrado l’ostinazione, i sacrifici, il talento e una grande forza atletica. Il suo personaggio è presentato come un’epitome del white trash, figlia di un padre affettuoso ma cronicamente disoccupato, che la molla presto, e di una madre alcolizzata che la picchiò fino ai diciotto anni quando, livida di rabbia e pugni, se ne andò di casa per sposare il ceffo instabile e manesco che nel giro di pochi anni le avrebbe rovinato la vita. Tonya Harding assurse infatti alle cronache internazionali a metà anni Novanta meno per i meriti sportivi e molto più per il suo presunto coinvolgimento nell’aggressione ai danni della rivale Nancy Kerrigan, colpita a un ginocchio con una sbarra di ferro al termine di una sessione di allenamenti per i campionati nazionali. Pare che l’assalitore fosse stato assoldato da Shawn Eckhardt, amico del marito di lei Jeff Gillooly e sedicente guardia del corpo. Il film assolve Tonya ma non ne fa semplicemente una vittima delle sue sventure bensì sempre un po’ co-responsabile benché per superficialità, inconsapevolezza e limitatezza dei mezzi a sua disposizione. I giudici dell’epoca, invece, non le concessero attenuanti e la ritennero rea di conoscere la macchinazione senza averla denunciata e per questo ne decretarono la squalifica a vita dal pattinaggio. La condanna fu durissima per una giovane senza istruzione né risparmi che per sbarcare il lunario decise di passare, come scrisse un giornale, “from the rink to the ring”. Non potendo più pattinare, infatti, Harding si dedicò al pugilato tornando in fin dei conti a praticare ciò che in tutta la sua vita aveva conosciuto meglio, le botte.

Una storia così poteva essere narrata nei toni plumbei di Million Dollar Baby ma lo sceneggiatore Steven Rogers e il regista Craig Gillespie (Lars e una ragazza tutta sua, United States of Tara) si sono sbizzarriti nel tracciare con ironia grottesca la parabola di un’antieroina in rotta di collisione con le norme di genere classiste del pattinaggio artistico, norme che oggi come allora premiano una femminilità interprete dei valori nazionali e ipocrita nel mascherare l’irruenza necessaria per vincere. Ma Tonya non poteva indossare la maschera di un’aggraziata ragazza della porta accanto con una sana famiglia tradizionale. Da bambina sparava ai conigli e tagliava legna, da adulta fumava, giocava al biliardo, beveva forte e scendeva sul ghiaccio con i segni evidenti dei colpi che prendeva dalla madre prima e dal marito poi. Non era una ice queen sottile e flessuosa ma una rebel on ice in pacchiani abiti fatti in casa, trucco pesante e improbabili dischi degli ZZ Top ad accompagnare i programmi di gara. I giudici la penalizzavano con voti ingiusti e in una delle scene in cui Tonya protesta contro chi le spiega che non contano solo i meriti sportivi ma anche l’estetica, la ragazza risponde come fece Soldato Jane al suo aguzzino: “Suck my dick”. Insomma, nessuna via di uscita dalla soffocante pantomima del genere. La prima ora circa di film, serratissima e incentrata sugli anni della formazione e sui primi risultati sportivi della ragazza, è più interessante della seconda che, essendo dedicata all’“incidente”, lascia molto più spazio ai personaggi macchiettistici di Gillooly ed Eckhardt rischiando l’effetto Scemo & più scemo.

I, Tonya è dunque una specie di epos e contro-epos nazionalpopolare che sembra filmato come una gara di pattinaggio, con dispiego di carrelli, piattaforme aeree e una colonna sonora onnipresente il cui ruolo segue una logica che oscilla tra interno ed esterno della narrazione: ogni canzone racconta un personaggio (Hey mama keep your big mouth shut dei Dr. Feelgood o Devil woman di Cliff Richard come leitmotiv della madre), commenta una scena (Gone daddy gone delle Violent femmes, Goodbye stranger dei Supertramp), sovradetermina uno spazio culturale molto più che un lasso temporale. Grandi hit degli anni Settanta come 25 Or 6 To 4 dei Chicago o Every 1’s a winner degli Hot Chocolate, infatti, non significano il contesto in cui si svolsero i fatti ma ricreano tutto il mondo di ritmi e di sensibilità a stelle e strisce a cui Tonya apparteneva.

L’avvenenza di Margot Robbie nel ruolo principale sembra di primo acchito eccessiva rispetto alla persona reale che è chiamata a interpretare ma finisce per essere funzionale all’operazione che il film intende compiere. I, Tonya è infatti costruito sull’alternanza tra momenti narrativi e interviste a posteriori ai protagonisti dell’affaire Harding-Kerrigan. Le interviste sono rimesse in scena come calchi di materiali definiti a inizio film “irony free, wildly contradictory, totally true”, tra l’altro in parte riproposti sui titoli di coda. A ciò si aggiungono pause narrative in cui i personaggi escono dal racconto e con sguardo in camera commentano l’aderenza o meno della scena ai fatti “realmente accaduti”. Tutti gli interpreti, dunque, sono chiamati ad adottare uno stile recitativo che sottolinea la loro presenza come intermediari tra persone esistenti (in diverse fasi della vita) e personaggi cinematografici [1]. Tale congegno permette di interpellare il pubblico come parte in causa di una vicenda in cui, tramite la macchina mediatica, l’opinione pubblica svolse un ruolo importante nel distruggere la vita della protagonista. Tonya-Margot stessa esplicita questa sua funzione accusando chi guarda di alimentare le storture del successo: “Pensavo che la fama fosse divertente, mi sono sentita amata per un minuto e poi mi hanno odiata. È stato come essere abusata di nuovo ma da tutti voi, tutti voi siete miei violentatori”.

In un film tanto imperniato sulla performance attoriale, spicca su tutti l’orrida madre Lavona interpretata da Allison Janney che per il ruolo si è aggiudicata il premio Oscar nonché il Golden Globe e il BAFTA come migliore attrice non protagonista. A lei sono affidate alcune lapidarie sentenze che rimangono impresse a guisa di morale del film, tra cui la principale è sicuramente: “You fuck dumb, you don’t marry dumb”.

[1] Sulla recitazione nei biopic contemporanei si veda Cristina Jandelli, I protagonisti. La recitazione nel film contemporaneo (Marsilio, 2013), seconda parte.