Alla seconda prova nell’animazione in stop-motion, Wes Anderson racconta un Giappone distopico in cui i cani sono relegati in un’isola-discarica e costretti a vivere tra le rimanenze e gli scarti della civiltà degli umani. In seguito dell’arrivo di Atari, pupillo del sindaco, i poveri animali si trovano coinvolti in una tesissima quanto inaspettata lotta per la libertà. Affrescando una manciata di storie d’amore, amicizia, redenzione e fedeltà, L’isola dei cani porta come previsto in un mondo coloratissimo e stilizzato, trascinato ai confini della terra: l’Estremo Oriente diviene così un limite invalicabile – un luogo di confine, tanto distante da appiattirsi di continuo sul proprio orizzonte e tanto remoto da sembrare popolata da alieni. È proprio qui che l’indagine sullo spazio, sulla forma, e sulla figura operata da Anderson trova un suo ideale terreno di riscoperta.

Il tessuto filmico in animazione consente all’autore statunitense di riproporsi artigiano e geometra della visione, estroverso arredatore o pittore: sulla scia di quanto visto in Fantastic Mr. Fox lo vediamo meccanizzare le traiettorie interne ai suoi siparietti, tanto ritmiche e ripetute da intrecciare la trama di una filastrocca, e trasformarsi in un demiurgo/marionettista tutto dedito all’appiattimento (grafico, calligrafico, pittorico) dello spazio in cui le sue sagome agiscono. Ecco che nel predominio calcolatore dell’immaginario andersoniano il Giappone si trasfigura completamente, chiudendosi in alcuni topoi culturali ben definiti (l’insistenza e l’importanza del segno, il raffinato ricamo delle rappresentazioni pittoriche) che ne diventano motivi fondanti di rielaborazione: L’isola dei cani è una terra-altra costellata di segni e grafi validi per se stessi, che non può far altro che somigliare alle proprie rappresentazioni. Ibrido tra cartoon e videogioco, il marasma visivo del film è iper-semiotizzato e sagomale: in esso lo spazio del quadro e quello del racconto coincidono, entrambi si appiattiscono e appiattiscono le figure che vi compaiono. Alla stregua di ogni altra macchietta già vista in precedenza nei mondi del regista, quella del cane è prima di tutto una figura buffa che si esaurisce nella propria esteriorità stilizzata: il pupazzo non-umano animato in stop-motion è la sublimazione di ogni altro “pupazzo” che appare all’interno di questo corpus di opere, sia esso antropomorfo o meno, in carne e ossa o in plastilina. A prescindere dal fatto che sia abitato per lo più da bestie e da masse di persone che blaterano parole incomprensibili e tutte da interpretare, non si può dire allora che L’isola dei cani sia un racconto post-umano (almeno non più degli episodi precedenti, da Grand Budapest Hotel a I Tenenbaum): lo scopo della sua narrazione è quello di rilanciare lo sguardo in luoghi sempre più lontani, sempre più piatti, e trasformare in protagonisti figure sempre più stravaganti e stilizzate, sempre più altre.

Più che ridefinire la centralità dell’uomo e del suo sguardo, Anderson si concentra dunque sulla natura delle immagini che sono oggetto del vedere cinematografico: tanto inevitabilmente superficiali quanto increspate da qualcosa che le eccede e le travalica per sua stessa natura. Qui è opportuno soffermarsi sul fatto che probabilmente L’isola dei cani è il film in cui, tra tutti quelli dell’autore, si versa il maggior numero di lacrime. O meglio, quello in cui si rischia di farlo più spesso: in più occasioni capita cioè che i grandi occhi dei cani che fanno da protagonisti si inumidiscano, talvolta per motivi tutt’altro che comprensibili, trattenendo un pianto a dirotto o in alternativa abbandonandovisi. Su queste figure bidimensionali affiorano dunque singulti emotivi che vibrano tra il non-visto e l’appariscente: proprio come le tracce di una civiltà perduta che sporgono dai cumuli di rifiuti, i corpi che perdono pezzi o vengono aperti durante sanguinose operazioni chirurgiche, o i volti deformati da lividi o traumi del passato, così la trama delirante e infantile si carica di risvolti politici e di intrighi fin troppo ben orchestrati: uno scenario, quello de L’isola dei cani, che si basa sul continuo e discreto manifestarsi di una profondità inapparente. Le figure di Anderson, potremmo insomma dire, sono piatte a metà: nel momento stesso in cui si negano una dimensionalità, schiacciandosi sulla linea del proprio orizzonte e stilizzandosi fino all’inverosimile, si assumono anche la responsabilità di esprimere qualcosa che va al di là della superficie, e ci permette di cogliere qualcosa di reale, che ci somiglia.

Non si può propriamente dire che il discorso di Anderson si evolva tra gli episodi in cui si articola: ma nei luoghi di questo nuovo film, o nella mandria canina di protagonisti, si scorgono le premesse sufficienti a concedere all’ossessivo racconto dell’autore una distensione commossa e affettuosa, tutta tesa a formulare e subito celare il desiderio di un altrove ancora invisibile.