Nel 1979 la Casa Editrice La Sorgente pubblica il celebre romanzo di Bianca Pitzorno intitolato Extraterrestre alla pari: racconta di Mo, che ha circa dieci anni e arriva dal pianeta Daneb per un progetto di scambio interculturale presso una famiglia terrestre. Non è né maschio né femmina, perché nel suo pianeta i caratteri sessuali si sviluppano intorno ai diciotto anni. “Su Deneb […] ogni individuo sceglieva azioni e atteggiamenti a seconda delle sue attitudini personali, o del momento, dello stato di salute, delle esigenze della comunità. Mai secondo il proprio sesso”. Presto Mo capisce quanto, per gli uomini e per le donne terrestri, siano differenziati e squilibrati l’impegno domestico, il profilo professionale, l’educazione e le aspettative sociali.

J., protagonista del primo lungometraggio dell’iraniana naturalizzata U.S.A. Anahita Ghazvinizadeh, They, è come Mo, ma non viene dallo spazio: abita nella periferia di Chicago e ha quattordici anni. Ha un viso sottile e lineamenti regolari, uno sguardo sfuggente e sembra più giovane della sua età. I medici hanno acconsentito alla somministrazione di una terapia ormonale che blocca lo sviluppo della pubertà, concedendo a J. il tempo giusto per scegliere se diventare compiutamente maschio o femmina. Intanto, si fa chiamare “they”, loro, nella speranza che anche la lingua si dimostri paziente. Ma quando i genitori sono lontani per occuparsi di una zia colpita da demenza precoce e a badare a loro ci sono soltanto la sorella Lauren e il suo nuovo ragazzo iraniano Araz, J. riceve una telefonata del medico: è necessario interrompere la terapia, ormai i rischi per l’organismo sono gravi e per J. è davvero giunto il momento di scegliere chi essere.

Anahita Ghazvinizadeh è un’autrice giovane e capace: questa sua prima opera cinematografica (precedentemente, aveva girato un’apprezzata e premiata trilogia di cortometraggi dedicata ai bambini) è, infatti, un esempio di equilibrio e compostezza formale, di grazia estetica e perfino di un certo, non scontato, distacco narrativo nei confronti di una storia in cui l’emozione, pur trattenuta e controllata, gioca un ruolo centrale. They – anteprima al Festival Queer Orlando di Bergamo, dopo aver partecipato in mostra a Cannes 70 – si costruisce interamente attraverso un flebile gioco di rimandi tra l’introspezione di J., la relazione con sua sorella Lauren, la figura di Araz e le sue origini mediorientali e, soprattutto, il piccolo mondo circostante che loro curano con metodo e perizia: i fiori colorati, inquadrati in primi piani strettissimi e sfumati su tonalità pastello, in una serra bianca e silenziosa, commentata di scena in scena dal suono scintillante e un po’ alieno di un metallofono, nelle musiche di Vincent Gillioz. Tutto intorno un ambiente ovattato, sottovoce. La lettura di poesie, i dialoghi, le telefonate: sussurri nell’aria pesante in cui J. si muove, passo lento e spalle curve per l’incombenza di quella scelta prematura.

They è un film sui passaggi rifiutati, sulle transizioni rinviate: non solo di genere (e di J. non sappiamo e non sapremo quale sia quello di origine, né quello di approdo) ma anche tra l’età della fanciullezza e quella adulta, tra la libera indeterminazione e il bisogno di definire confini e attenersi a norme e codici. A loro non si chiede soltanto di scegliere tra maschio e femmina: si pretende soprattutto che sciolgano l’imbarazzo per quel plurale, che si riducano a un singolare. Per raccontare la fredda violenza di questo ricatto, Ghazvinizadeh sceglie di anestetizzare ogni conflitto esplicito, di non indagare il problema sociale per lasciare lo spazio necessario alla sospensione emotiva di J.: lo sguardo della cinepresa è discreto e nascosto, dietro le imposte o lo spigolo di un corridoio, tra le fronde di un albero o al di là della strada. Spesso fuori fuoco, come probabilmente si percepisce J. nella sua ricerca di identità e autorappresentazione. Non si racconta, se non di sfuggita, l’omofobia o la transfobia. Né lo scontro culturale, nella lunga parentesi dedicata ad Araz: come in un momentaneo ritorno alla realtà, la narrazione si dedica alle dinamiche tra il giovane iraniano e quella parte della sua famiglia che ha lasciato la patria per vivere negli USA, si apprende del suo stato di immigrato clandestino (motivo per accelerare le pratiche del matrimonio con Lauren), del suo malandato padre che invece non può partire, della sua bizzarra idea di tornare in Iran per andare dal dentista. In una sequenza delicata e significativa, J. e i bambini della famiglia di Araz danzano su una musica tradizionale curda: per quei passi, spiega uno zio, non c’è distinzione uomo-donna, perché “è completamente libera”.

Ai margini del racconto, solo cenni di frizione sentimentale, qualche telefonata tesa e occhiata insistita: ma il mondo sembra, pur distrattamente, capire e proteggere J.. È in questa sorta di plastica indulgenza che spicca più potentemente il suo tormento: l’obbligo della scelta, l’impossibilità di rimanere ancora così indefinitamente fragile. Come Mo, anche loro soffrono per la pretesa degli adulti di incasellare quella plurale unicità in una singola lettera su un modulo precompilato: ma, a differenza dell’extraterrestre della Pitzorno, J. non può scappare e tornare sul suo pianeta lontano.

L’inquadratura spesso indugia con tenerezza sul volto inquieto e malinconico di Rhys Fehrenbacher. Fissando quello sguardo, non si può invocare un chiarimento: J. non è lui o lei, è loro, contemporaneamente, nello stesso corpo precoce, come alcuni fiori e, forse, come l’immagine di quell’albero grande e immobile che apre e chiude il film, su cui alcuni versi sospirati suggeriscono

Bambini non si rimane mai abbastanza a lungo.