Il 19 luglio 2012 ad Aurora, cittadina del Colorado, avvenne uno dei più tragici ed emblematici fatti di cronaca degli Stati Uniti contemporanei. In occasione del’attesa prima di The Dark Knight Rises, terzo e ultimo capitolo della trilogia dedicata da Christopher Nolan a Batman, il ventiquattrenne James Holmes, indossando una maschera dl Joker, fece irruzione nel multiplex locale e aprì il fuoco uccidendo 12 persone. Giocando efficacemente e con acre ironia con il titolo del film di Nolan, Dark Night di Tim Sutton è una sorta di prologo della strage che cerca di scandagliare, senza ricorrere alla sociologia più esplicita, le sue cause più profonde e insondabili.

Sutton accentua il distacco e l’algidità che già caratterizzavano Elephant di Van Sant, il modello e il riferimento più evidente, rinunciando quasi totalmente alla narrazione ed evitando di offrire una qualsivoglia forma di coinvolgimento emotivo. È un susseguirsi di attimi, di istantanee simili a polaroid, che immaginano la giornata di sei giovani che la sera sarebbero andati in quel cinema, compreso l’attentatore. Sono sei figure simbolo – dalla blogger salutista al reduce dall’Iraq sconvolto, dal ragazzo creativo e asociale agli skater – e archetipiche di una generazione alienata e senza sbocchi, condannata ad una coazione a ripetere di azioni, atteggiamenti e interessi più obbligati che davvero “sentiti”, più simili ad un disperato rimedio alla noia che ad una reale passione in grado di evolvere. Una stasi che coinvolge lo stile di regia, essenziale, distaccato e apparentemente inerme come quello di un osservatore esterno che vuole porre dubbi e ipotesi lasciando carta bianca all’oggetto della sua analisi.

Sono pochi i momenti in cui la cinepresa rinuncia alla staticità legata ai comportamenti dei personaggi e in qualche modo si emancipa; lo fa in particolare nelle sequenze dedicate all’ambiente e al contesto urbano del sobborgo in cui i giovani vivono, simile a tanti altri visti nel cinema statunitense. Così, la panoramica dall’alto, tra le prime inquadrature del film e che torna nel finale, sui tetti delle villette asettiche, identiche e posizionate con un inquietante senso geometrico, dà un senso di minaccia incombente, quasi suggerendo tensioni e disagi pronti ad esplodere in maniera clamorosa e improvvisa. Allo stesso modo, il momento in cui Sutton abbandona i suoi personaggi ed esplora il quartiere con Google Street View rende quasi palpabile l’impossibilità di una via di fuga, ancora seminando dubbi sull’ineluttabilità del tragico evento. Fredde, angoscianti e asettiche risultano anche le inquadrature dedicate a interni dominati dalla luce del neon, ennesima sottolineatura di un’alienazione collettiva e pericolosa.

Tutto in Dark Night è in qualche modo già visto e raccontato, dall’ambiente urbano specchio e causa di precisi stati d’animo, alla rappresentazione di una gioventù vittima del disagio più torvo e dei suoi “tipi” più simbolici e riconoscibili. Sutton del resto gioca con le consapevolezze dello spettatore, sia, appunto, rielaborando ed estremizzando il già visto e raccontato, sia soprattutto giocando con la conoscenza pregressa del tragico evento. La strage non è mai esplicitamente citata; il ritratto dell’alienazione di Dark Night potrebbe anticipare uno dei tanti fatti di sangue simili avvenuti negli Stati Uniti negli ultimi vent’anni, così come essere il prologo di una qualsiasi conseguenza di una notte brava e disperata, più o meno grave e più o meno clamorosa. L’inquietudine e la tensione nascono dal fatto che lo spettatore sa cosa succederà, dal fatto che è già stato sconvolto dall’evento e che ha già avuto modo di decantarlo; solo partendo da questo presupposto possono essere davvero colti gli indizi più diretti che Sutton semina nel corso dell’opera, come i servizi di un telegiornale dedicati ad una sparatoria, o le urla terrorizzate di ragazze vittime di uno scherzo nel parcheggio del multiplex, e solo partendo da questo presupposto è possibile essere pervasi fino in fondo dall’inquietudine e dal disagio angosciante che il regista vuole trasmettere.

Dark Night appare così, anche per il suo posizionarsi a metà del guado che separa il film di finzione dal documentario, un’opera concettuale e quasi astratta che si fonda su una base estremamente semplice (quella cioè che in qualche modo sfrutta le consapevolezze dello spettatore), nella sostanza meno complessa, autosufficiente e  potente di quanto possa sembrare nell’immediato della visione. In fin dei conti, chi guarda viene in qualche modo costretto a “giocare” a  prevedere chi sarà l’assassino, dato che gli indizi, sempre sulla base delle conoscenze pregresse dell’evento e dei molti film visti intorno a simili tematiche, fanno sì che chiunque degli archetipici personaggi possa essere il potenziale attentatore. Elemento che teoricamente avrebbe dovuto rafforzare il cupo ritratto generazionale e sociale – facendo rientrare dalla finestra quella sociologia fatta uscire dalla porta –, ma che nelle sostanza appare una scorciatoia causata da un approccio troppo schematico, studiato, freddo, qua e là compiaciuto, che lascia qualche sospetto di una certa furbizia di fondo.