All’interno di un piano metaforico suggestionato da influssi scientifici, il dolore è una questione di assetto gravitazionale. Questa sensazione che denota la sofferenza psicofisica di un individuo, lo stato spirituale provocato da una realtà ineluttabile è traducibile sul piano fisico-dinamico come un movimento che richiede coordinate, angolazioni e simmetrie. First Man guadagna ambizione concettuale livellandosi su queste considerazioni, inscrivendo tutte le scelte narrative in uno schema di composizione e veicolando ogni emozione attraverso il linguaggio della tecnica. La storia dell’allunaggio raccontata da Damien Chazelle infatti è, pur nel perimetro rigido di un progetto guidato da precise politiche commerciali, svuotata della fiammante epicità dei racconti patriottici e occupata da due strutture totalizzanti: quella di un preciso disegno emotivo, impegnato a interpretare il noto attraverso angolazioni inedite, e quella di un altrettanto puntuale piano architettonico, deciso a comunicare attraverso le sue regole.

Il nucleo tematico dell’avventura del “primo uomo” non risiede nel cielo, bensì nella perdita. È questo il motore che spinge il personaggio all’azione, la motivazione che lo attrae verso un obiettivo di sconfinata portata. Fin da questo presupposto narrativo (comprensibile in realtà solo a posteriori) la narrazione di First Man si rivela dominata, nei suoi alti e bassi qualitativi, dalla ferma intenzione di tradurre le relazioni dei personaggi in legami spiegabili con il linguaggio della fisica; il protagonista non tende, ma è attratto da una tensione che lo domina; non controlla la gravità, ma è scolpito invece da una forza invisibile che orchestra i suoi movimenti; non desidera, ma è chiamato da un desiderio lontano nel mondo e nel suo animo. Il viaggio mosso dal lutto di cui è partecipe è caratterizzato da una verticalità bivalente: spinta verso l’alto e richiamo alla profondità del basso; slancio verso lo sconosciuto che sta sopra e piegamento verso ciò che sta sotto; evoluzione che scalfisce il soffitto del cielo e involuzione che saggia il confine del baratro.

L’interazione con la perdita sviluppata dalla narrazione è coerente: “la caduta di un corpo ne presuppone un altro che l’attira, ed esprime un cambiamento nel tutto che li comprende entrambi”, scrive Deleuze. Il peso del racconto influisce e impatta con forza sull’equilibrio del mondo rappresentato, dominato da forme che includono ed escludono, inquadrano e liberano, esaltano e nascondono. I personaggi principali non solo pensano dentro al quadro spesso soffocante del frame, non solo cercano risposte allineandosi nell’orizzontalità dei campi lunghi, ma lo fanno secondo le leggi imposte dal dolore che hanno subito: si fermano in luoghi vuoti, cercano di sfumare nel paesaggio esteriore per dimenticare, falliscono trovando in questo elementi del loro panorama interiore. Non riescono a fuggire dalla geometria del dolore, dal codice in cui sono inscritti, dalla norma espressiva che li limita per contrazioni.

Il viaggio folle diventa l’unica risposta esistenziale possibile per trovare pace nella realtà della sofferenza. Il film trasfigura il più iconico momento del secolo nella risoluzione emotiva di un singolo individuo, spostando il peso del mondo sul cuore del protagonista mentre tutte le architetture si risolvono in un unico elemento definitivo: una linea distesa sulla lavagna del cielo che delinea un nuovo disegno da adagiare sul mondo; una riga che piega la sua verticalità in fuga in un nuovo orizzonte geografico e conoscitivo, fatto di silenzio e memoria, vuoto astrale e deflagrazione interiore. Le tensioni sono soddisfatte, l’obiettivo è raggiunto e gli schemi della disperazione si organizzano in una nuova composizione: quella dell’amore, dell’affetto, dello sconfinato linguaggio che scardina le equazioni e i calcoli matematici attraverso gli atti di coraggio e i sacrifici spesi in onore dei fantasmi.

Attraverso il racconto di un viaggio compiuto nel nome di un dolore senza logica (e non di un’ambizione senza confine), First Man racconta l’inconoscibile realtà emotiva racchiusa nel momento che ha cambiato la storia dell’uomo. Lo fa affidandosi a un linguaggio che parla per figure silenziosamente disposte dentro lo schermo, accavallando forme e contenuti e cercando nella rarefazione minimale dell’impianto espressivo la massima profondità comunicativa, la migliore versione per raggiungere l’empatia dell’occhio di chi guarda. Con il dolore trasfigurato in un’espressione geometrica e la perdita di una figlia nella caduta che riscrive le leggi di gravità, il viaggio per la luce della Luna si rivela nient’altro che un viaggio in fondo alla notte dell’animo, l’unico modo con cui colmare la distanza creatasi tra l’individuo e il mondo: un tocco per restare vivi al di là di un vetro, sulla superficie dello spazio, a pochi centimetri dal nulla e vicinissimi a tutto quanto rimane.