Mentre la voce roca di Johnny Cash intona I see a darkness, la macchina da presa riprende dall’alto il corpo ossuto di Lucky, che in posizione fetale disegna una curva aguzza sotto le coperte del suo letto.  Gli occhi umidi sembrano temere il buio della stanza, proiezione di quel vuoto oscuro in cui l’uomo non riesce ad accettare che la sua esistenza presto terminerà. Come si impara a morire? Come si può vivere consci del nulla eterno? Novantenne, Lucky allontana queste domande con una routine fatta di ginnastica la mattina, cruciverba nel pomeriggio e Bloody Mary la sera, finché durante uno dei suoi cinque esercizi mattutini di yoga inizia a barcollare, la vista si annebbia, e cade a terra. Niente di rotto e nessuna malattia, è solo la vecchiaia che avanza, prova a rassicurarlo il medico. Ma ormai la paura della morte si è subdolamente radicata in lui, che da ateo convinto non può nemmeno rifugiarsi nel rassicurante pensiero della sopravvivenza dell’anima.

Da quel momento, tutti gli incontri diventano occasioni a servizio del tema. Tom Skerritt declina un classico ma viscerale monologo di guerra in cui ricorda una ragazza giapponese che, tra sangue e cadaveri, riusciva ancora a sorridere di fronte alla prospettiva liberatoria della morte. David Lynch dà vita a un personaggio che, nella sua serena eccentricità, sembra uscito da uno dei suoi film: un vecchio che fa testamento per lasciare tutto al suo miglior amico, la testuggine Presidente Roosevelt, che è ormai fuggita ma lo ha impressionato con la lenta saggezza con cui ha saputo attraversare l’esistenza.

Didascalico nella sua chiara volontà di esplorare la paura della morte, poi di indicare una via d’uscita laica a questa angoscia, Lucky si sviluppa verso la presa di coscienza che l’unica strada possibile è sorridere di fronte al nulla eterno e accettare che i fiori sui cactus cresceranno anche senza di noi: una fragile saggezza che ben si sposa a un ritratto malinconico e umano della vecchiaia.

Alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa dopo tanti anni da attore, John Carroll Lynch (nessuna parentela con David) realizza un regia minimalista, cauta, impegnata soprattutto a lasciare il giusto spazio agli attori. La struttura episodica del film dedica del resto a ogni interprete un momento monologante con cui, come in un’aria lirica, scolpire il proprio personaggio. A tessere insieme i diversi frammenti, conferendo unità al racconto, è il volto scavato di Harry Dean Stanton, il corpo macilento in bermuda bianchi e cappello da cowboy. Un corpo che Lynch riprende con rispetto e tenerezza, senza mai indugiare sulla sua senescenza e il suo implacabile logorio, parziale nel rinunciare a ogni istanza cinica – del resto rintracciabile e spesso altrettanto programmatica in molto cinema contemporaneo – nella rappresentazione della vecchiaia.

Lynch attinge all’immaginario della provincia americana, fatta di stradine sterrate che si confondono nel deserto e pub dalle insegne luminescenti, senza però aggiungere nulla di originale alle possibili eco di Paris, Texas, forse il titolo più famoso di Stanton, o di certi paesaggi in Una Storia vera di David Lynch, film che per tematiche e ritmo – una ricercata lentezza – sembra a più riprese evocato. Riferimenti isolati, che non aggiungono molto al pigro descrittivismo dell’ambientazione.

Per quanto Lucky non ambisca a un particolare realismo e tantomeno a un discorso politico, riesce difficile immaginare che la provincia americana che ha votato in massa Trump sia davvero una comunità così armonica, dove gli ispanici vengono fatti sentire a casa anche se non parlano inglese e tutti si stringono intorno a un vecchio per proteggerlo e accompagnare la sua strada verso la morte. Presentato in concorso a Locarno 2017, Lucky funziona quindi come delicata favola sulla morte e testamento spirituale di Harry Dean Stanton, scomparso poco dopo aver finito di girare: ci piacerà ricordarlo mentre in un pub, di fronte al cartello “Non fumare”, si accende una sigaretta.