L’immagine brucerà. Alla fine. Divamperà consumando sé stessa e l’occhio di chi guarda, portando con sé il giudizio e la condanna che il fuoco impone su tutte le cose che sovrasta. La sua fiamma sarà un’eredità donata al mondo, il sigillo di una morte annunciata e lentamente raggiunta attraverso una progressiva combustione di senso. È questa la promessa che fa In Guerra fin dalla sua prima sequenza, dichiarandosi storia del fatale divenire di una scintilla divoratrice, dietrologia del momento dell’incendio, giustificazione della potenza inarrestabile del fuoco. Il film sulla lotta di classe e sulla realtà operaia è un dramma guerrigliero costruito attraverso una tensione insostenibile, tra controllo e furia, sentimento e rassegnazione; un’opera spesa nel nome del romanticismo civico e della resistenza attiva, pensata per destrutturare l’anatomia di un singolo gesto pubblico e allo stesso tempo raccontare la costruzione di una decisione di estrema sofferenza. Una storia travolta dal boato di un forte tensione concettuale ed esperienziale.

Inscenando il conflitto tra un gruppo di operai e la dirigenza di un’azienda, dando vita alla dialettica comunicativa interna alle fazioni dei lavoratori e indagando le dinamiche strutturali delle differenze di classe, Stéphane Brizé racconta la crisi dei lavoratori della fabbrica automobilistica Perrin al momento della sua ingiusta e improvvisa chiusura. Dopo le raffinatezze de La legge del mercato, il regista francese imbriglia il finzionale fatto contemporaneo – ispirato però da più eventi realmente accaduti – con altri toni, operando precise scelte di rappresentazione e costringendo la diegesi nel quadro di queste decisioni. La tragedia operaia (ma, si vedrà, soprattutto umana) è raccontata come una lotta urbana – costruita con continui piani senza punti di fuga e senza momenti di respiro, incisa nella claustrofobia fuori fuoco e nella sovrapposizione dei volti e delle voci – che corre per blocchi contigui in un crescendo disperato e sensazionale, capace di esaurire e allo stesso tempo spalancare il dicibile sulla realtà civile attraverso un racconto-testimonianza impostato con ansia documentaristica, affamata di realismo e verità contingente.

Ipocrisie, speranze, ideologie e fallimenti sono rappresentati come le uniche coordinate di corpi umani devastati da stanchezza e nevrosi, prigionieri di un inganno sociale istituzionalizzato e invincibile. Laurent (il rappresentante sindacale in capo interpretato da Vincent Lindon) e gli altri operai dell’azienda protestano, fermano i lavori, cercano un dialogo con le alte sfere per trovare risposte o soluzioni alla loro situazione, ma si scontrano tra loro e contro la presunta superiorità degli organi dirigenziali. Brizé si addentra negli strati intestini dello scontro ma non trae conclusioni macchiate da scetticismo sopra le parti o agnosticismo temporeggiatore; costruisce invece attraverso la finzione un documento visivo in grado di puntare il dito contro le forme del male civile, sviscerando sia la doppiezza delle immagini mediate dalla comunicazione pubblica – il gioco di maschere speso nella politica e la realtà umana dietro all’impersonale resoconto dei media – sia l’incredibile complessità di ogni azione sociale. Per questo scende in trincea, si affossa dove si svolge l’azione e cerca di avvicinarsi il più possibile nelle camere delle decisioni, dei litigi e dei dissidi, nell’intrico di corpi dove non c’è spazio per grandi perifrasi e tutto è presente, fulmineo, reale nel momento presente, come una ferita fresca che sottintende dolore pregresso e non promette futuro.

Mettendosi dalla parte degli sconfitti, il regista francese identifica le azioni dei protagonisti come un’espressione esasperata della sofferenza e della solitudine di una classe sociale abbandonata dalla Storia, cancellata dalla legge dell’economia del profitto numerico e del calcolo matematico, tanto dimenticata da risultare invisibile a se stessa, incoerente e per nulla unita. Mentre la tensione tra le fazioni opposte cresce, stratificandosi e autoalimentandosi, e la crisi si disvela in picchi sempre più dolorosi, le immagini raffigurano una battaglia con sorti già decise, contenendo a malapena la loro potenza e implodendo in lunghi sfoghi ipnotici, sostenuti dall’azione della musica elettronica e dall’interpretazione muscolare degli interpreti – tra cui un Lindon di mostruosa forza psicofisica. L’aumento della tensione vivifica la profondità delle tematiche, e infatti le considerazioni proposte da Brizé sulla condizione dei lavoratori nel momento dell’esplosione dell’azione si illuminano di una rabbia profonda e commossa che riconosce nella sconfitta esistenziale e nel fallimento del sogno di riscatto la sola verità possibile.

È in quel momento che l’immagine brucia. Nell’attimo della rivelazione finale in cui, dopo aver perduto ogni speranza, lo sconfitto tra gli sconfitti si rende conto dell’impossibilità della vittoria e della natura condannata del mondo, il quadro compositivo prende fuoco come risultato di una pressione a lungo trattenuta e poi improvvisamente liberata. Quando un elemento della narrazione compie un gesto per riportare in vita un ideale, la potenza dell’azione commessa passa attraverso il muro della diegetica e raggiunge un territorio che riflette anche il ruolo dell’immagine, la sua posizione rispetto al contenuto e alla sua importanza. Il film è per questo la preparazione di un momento che scuote e risveglia, sconvolge e ferisce. Al di là della storia e dentro al cuore di chi guarda, riflettendo sulla condizione operaia e umana in un momento in cui si pensava non ci fosse più la voce per farlo e riscoprendo la forza dell’immagine nei confronti del mondo. È così che il cinema ancora una volta si dimostra vivo anche se sconfitto, reale anche se costruito nella finzione, necessario anche se dimenticato. Pronto all’azione. In guerra.