«Ho una propensione per le commedie romantiche eccentriche, sebbene detesti le storie d’amore e sia terribilmente cinico», ammette Ram Nehari in un’intervista a proposito del suo primo lungometraggio Non dimenticarmi, che al Torino Film Festival del 2017 ha vinto i premi principali: miglior film, miglior attrice protagonista e miglior attore protagonista.

E in effetti il suo film rispetta diverse condizioni proprie del genere. Ci sono due protagonisti insoliti e sopra le righe: Tom, una ragazza anoressica costretta dai genitori a vivere in una clinica per problemi alimentari, e Neil, suonatore di tuba che mentre studiava musica ad Amsterdam ha iniziato a vedere scheletri tra l’orchestra. C’è l’incontro tra i due, che più che innamorarsi trovano rifugio l’uno nell’altro, si specchiano nella loro condizione di dimenticati dalla famiglia e dalla società, non dialogano per davvero ma sanno ascoltarsi mentre fanno monologhi sulle proprie ossessioni.

Tipica della “commedia eccentrica” è anche la critica sociale capace di emergerne. Alla follia ufficialmente riconosciuta dei due ragazzi si contrappone quella del loro ambiente, incarnata dalla clinica per i disturbi alimentari, dove nessuna delle ragazze viene davvero curata – e infatti appena salta la luce tutte corrono a buttare il cibo o a vomitare – e dalla famiglia di Tom, chiusa in un rigido bigottismo che ne fa infuriare i genitori quando la figlia dice di voler andare con Neil a Berlino, vista ancora come la capitale di una perversa nazione nazista.

In Non dimenticarmi ci sono dunque tutti gli elementi che una classica commedia sopra le righe deve contenere, ma nulla di nuovo o personale nel raccontare l’incontro tra due emarginati e la loro fuga dalla società. Partendo da uno spunto narrativo abusato, Nehari non riesce a trovare la sua voce, ondeggia tra una satira sociale che non morde fino in fondo e un tono romantico che rimane troppo acre per risultare tenero o commovente.

L’aspetto più convincente del film resta così probabilmente la capacità di trattare la malattia mentale in modo crudo e credibile, senza filtri ma al contempo evitando di abbandonarsi al pietismo. Una chiave che è stato possibile individuare grazie agli workshop del regista israeliano insieme a persone con disturbi mentali, coinvolte anche nel film, e alla vicinanza di entrambi gli attori a questo tema: Nitai Gvirtz ha infatti preso ispirazione per il personaggio di Neil da un amico con una storia simile e Moon Shavit ha creato Tom sulla base dei problemi alimentari da lei realmente avuti. È soprattutto Tom a parlare in modo più diretto della propria malattia, a buttarla in faccia a Neil senza nasconderne gli aspetti più assurdi, riconoscendo la tendenza autodistruttiva a crogiolarsi in essa.

Questa sensibilità permette a Nehari di creare due personaggi vivi e non stereotipati, ma non di condurre a partire da essi una critica sociale strutturata e capace di illuminare nuovi aspetti nel contrasto tra istituzioni e malati. «Per la società è molto comodo stabilire chi è “pazzo” e chi non lo è, permette di tenere lontano chi viene definito malato […] Nel nostro film era importante confondere la linea di separazione tra sano e malato. Ossessioni, pazzia e paure sono ovunque, dentro le mura degli istituti e all’interno della stessa vita famigliare» ha dichiarato Nehari con una retorica già ampiamente nota, che si riflette nell’incapacità del suo film di elevarsi al di sopra di un discorso ormai codificato sul labile confine tra sanità e malattia.