Nel momento in cui le sale cinematografiche perdono la loro egemonia come luoghi di distrazione di massa (dalla pandemia alle continue ri-mediazioni del modo di esistenza tecnica del dispositivo cinematografico, le cause di questa “rivoluzione” sono molteplici, per quanto non siano l’oggetto di interesse specifico di questo articolo) David Lynch “interroga” l’animale a noi più prossimo per imbastire la sua Gestalt sul potere dell’immaginazione: il cebus capucinus. Volgarmente soprannominato scimmia cappuccina per via del suo manto che ricorda il saio dei frati della confraternita dei Cappuccini sembra essere questo l’animale più “vicino” all’uomo quanto a uso di oggetti tecnici e a organizzazione sociale. Il principio base della Gestalt, la vicinanza come elemento determinante l’unità compositiva di un’immagine percepita detta infatti l’agenda della messa in scena di What did Jack do?, corto girato da Lynch nel 2016 e presentato al pubblico solo nel 2018 all’interno di Disruption, festival che mette insieme opere selezionate dal regista americano appartenenti ai più svariati campi espressivi e unite solo da uno sfrenato impulso creativo – uso qui non casualmente il termine creativo in quanto è questa la dimensione attraverso cui lo psicologo Max Wertheimer articola la sua teoria di Gestalt, ovvero il dare forma a un’idea, a un pensiero, al pensiero delle immagini.

Jack, la scimmia vestit* da uomo, è davvero il responsabile dell’omicidio di Max Clegg, probabilmente il custode di un serraglio o circo infatuatosi di Tootatabon, la gallina di cui è pazzamente innamorato? Jack, la scimmia vestit* da uomo, rappresenta il soggetto freudiano travestito e mostruoso, schizofrenicamente diviso in quanto animale che ha orrore della figura umana, come direbbe Bataille? Domande che non hanno risposta, come per tutte le opere di David Lynch, ma che si incistano come un cancro nella secolare querelle sulla evoluzione dell’umano dalle sue origini animali. Sempre seguendo il materialismo batailliano per cui gli uomini non sono altro “…che una tappa intermedia tra le scimmie e i grandi edifici” (Documents), Lynch, nei panni di un detective che deve risolvere un caso di omicidio, usa la detection – che oltre a sussumere il proprio del cinema come arte autoptica della realtà è anche arte investigativa per eccellenza, indagine al di sopra di ogni sospetto – come strumento per stabilire la verità sulla doppia trascendenza dell’Arte e della Storia. Come scrive Sergio Finzi nella sua introduzione agli scritti di Bataille raccolti nella rivista Documents tra il 1929 e il 1939 , “…materialismo dell’Arte e materialismo della Storia convergono in quella distruzione di ogni trascendenza che è il materialismo dell’impossibilità, negazione sia dell’arte che della storia.”

Le poche inquadrature fisse che Lynch utilizza alternano il campo/controcampo tra l’investigatore e la scimmia – escamotage che serve ad evitare sia l’abuso dell’animale sul set sia il feticismo dell’animale “in presenza” – al totale della sala d’attesa di una stazione ferroviaria dove si svolge l’interrogatorio e in cui si percepisce una finestra da cui balena un paesaggio industriale che rimanda direttamente a Elephant man o Eraserhead. L'”architettura” di What did Jack do? evoca in sintesi gli scenari metropolitani da futuro anteriore appartenenti alla seconda rivoluzione industriale – durante l’interrogatorio viene citata non casualmente Bristol, città emblema del lavoro alienato e nuovo modello di sviluppo urbanistico fondato sulla fabbrica – e allude plasticamente alla sovversione dello stato delle cose che il materialismo pone come questione ineludibile per inibire “…l’autorità architetturale dei grandi edifici” (S. Finzi, cit.).

Quando l’investigatore chiede: “Sai niente di uccelli?” Jack risponde: “Ogni uccello fa festa al suo nido”. È la prima allusione all’aperto, la dimensione che separa e unisce il mondo dell’uomo con il mondo animale e che Rilke nell’ottava Elegia duinese restituisce poeticamente come visione, “…istante aperto su un altro mondo” (J.C. Bailly, Il versante animale), memento che ritorna sopravvivendo a sé stesso oltre ogni pensiero e che solo il cinema inteso non come macchina affabulatoria ma come fondo che precede e oltrepassa lo schermo sembra in grado di restituire. Quando Bailly descrive l’incontro notturno con un capriolo che fa da prologo a Il versante animale, lui alla guida della sua auto e l’animale che gli corre davanti sul bordo stradale, egli chiede aiuto al cinema, implora una macchina da presa che possa cogliere l’attimo fuggente in cui l’animale emerge dal buio fitto del bosco. Il filosofo francese, come Derrida nudo davanti alla sua gatta, immagina di far parte, almeno per un momento, di qualcosa da cui l’essere umano è sempre escluso: “…quello spazio senza nomi e senza progetto nel quale l’animale traccia liberamente il suo cammino” (Il versante animale, cit.). Così Jack dice a David, la meraviglia era nel mio cuore ma non capiresti una cosa del genere.

David, nel cercare di metterlo definitivamente alle corde, incalza Jack: “Sei o sei mai stato un membro del partito comunista?” L’investigatore vuole arrivare all’oggetto del desiderio che coincide con l’oggetto dell’omicidio di cui Jack è sospettato ricorrendo all’astuzia, qualità che connota la figura umana fin da quando la civiltà ha deciso di usare il topos letterario dell’eroe per contendere il fuoco della ragione agli dei. Ma per Jack, che non è più un animale, cioè un concetto, andare oltre l’oggetto del desiderio significa ridicolizzare l’ideale borghese dell’integrità della figura umana contestandone il linguaggio specialistico e, in quanto tale, assurdo. Il potere delle parole dell’investigatore viene così a perdere la sua efficacia perché Jack evade da quella riserva fisica e metafisica che si chiama “animale” e da cui l’umano continua ad attingere per le sue metafore di stampo antropocentrico.

Per Gelhen le pitture rupestri del Paleolitico rappresentano una prima forma di “esonero” dell’uomo dai bisogni che il mondo esterno gli imponeva per la sopravvivenza. Il fissare immagini su una superficie significava acquisire durevolezza e stabilità e soprattutto avere a disposizione il tempo necessario per sciogliere quel groviglio di negoziazioni che ogni civiltà contratta con la realtà di cui è parte integrante: “La raffigurazione segna il passaggio alla categoria del mantenere la copertura del bisogno presso di sé e della durata, che si ottiene dapprima in vivo, come rito imitatorio e solo in un secondo momento come raffigurazione in materia, sotto forma di pittura e scultura.” ( Gelhen, L’uomo delle origini e la tarda cultura).

Pertanto questo sfondo stabile che permetteva all’uomo di svincolarsi dalla dipendenza dei bisogni primari era possibile solo attraverso la raffigurazione “simbolica” del grande animale, e cioè attraverso la rappresentazione delle singolarità drammatiche di leoni, tori, cavalli, cervi, mammut, rinoceronti. Se questa ricostruzione è “storicamente” corretta l’esonero dal bisogno prevedeva anche una deroga dai comportamenti abituali con cui venivano consumate le immagini. Le persone infatti cominciano a isolarsi per accedere a quegli stati di modificazione della coscienza individuale che permettono quella che Gelhen definisce inversione della direzione pulsionale che dalle estasi procurate artificialmente attraverso l’ingestione di sostanze psicotrope fino ad arrivare al cinema hanno sempre soddisfatto questo bisogno trascendente di sopra-naturale. Se per un attimo, quell’attimo che brulica di vite che vivono solo per esistere, abbandonassimo la filologia disciplinante della storia cinematografica e ci lasciassimo fuorviare dall’immaginazione potremmo dire che il cinema, come sfondo che ci esonera dalla miseria del reale, ci precede così come ci precede il grande animale, totem che indica il percorso per arrivare nel fondo dei pozzi di Lascaux (Finzi, cit.), dove poter sottrarre la morte al discorso e così giungere alla vergogna della figura umana da cui dipende la figura della vittima, mai della preda. E se il cinema fosse davvero questo sfondo che ci esonera dalla violenza del reale allora anche la vexata quaestio sulla fine della sala come epicentro delle dinamiche pulsionali dell’immaginario collettivo sarebbe un falso problema in quanto la visione è sempre una negoziazione tra il proprio vissuto e l’esperienza rituale della collettività. Tootatabon è l’amore prima dell’amore, è il cinema oltre lo schermo, è quella pulsione che ci spinge ancora a isolarci, noi con le nostre visioni, per de/figurare l’invulnerabile ed eterna unità posta al vertice della creazione che chiamiamo umanità.

Jack prima di essere arrestat* canta: “La fiamma del vero amore brucia luminosa. È la fiamma dell’amore”, ma le parole fuoriescono dalle labbra posticce dello stesso Lynch applicate digitalmente sulla bocca di Jack. Nella testa che cancella del filmmaker americano dove oranghi, coccodrilli, conigli e galline convivono conflittualmente per assicurarsi una sopravvivenza gestita “democraticamente” dai sapiens super partes, l’uomo continua a predicare bene mentre la gallina continua a razzolare male, come si vede nell’ultima inquadratura.
Ma allora cosa ha fatto veramente David Lynch? Dalla sua posizione defilata rispetto all’industria cinematografica Lynch ha messo in gioco sia la sua figura umana rispetto allo spirito dei tempi che presagisce la crisi del devastante modello antropocentrico che ha fin qui sancito la storia del mondo, sia le sorti del cinema a venire, trattandolo non come un dispositivo in evoluzione ma come un bisogno che ci costituisce e che ci precede. Insomma per Lynch il cinema continuerà a sopravvivere, malgrado tutto, solo se sarà in grado di “cancellare” quella sofferenza estetica che sempre più coincide con il degrado della vita pubblica.


Bibliografia

Georges Bataille, Documents, Dedalo, 1974.

Jean-Christophe Bailly, Il versante animale, contrasto, 2021.

Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, Feltrinelli, 2006.

Arnold Gelhen, L’uomo delle origini e la tarda cultura, Mimesis, 2016.