Una donna, velata, si scopre incerta, respira e, dopo aver versato il sangue dato dal taglio su una mano, si lava la ferita nell’acqua del mare. Il rituale, il dolore del corpo e la purificazione. Inizia così Piccolo Corpo, esordio nel lungometraggio di Laura Samani, presentato alla Semaine de la critique a Cannes 2021. Il film si apre con un rituale pre-parto, che già dimostra una certa circolarità della scrittura. Poi la sofferenza, il parto e infine una dolorosa scoperta: la bambina nasce già morta. Non la si può battezzare e tantomeno darle un nome. Si parla già di un’anima perduta nel limbo, in un’Italia di inizio Novecento che, prima di concretizzare la psicoanalisi freudiana e la medicina palliativa, aveva come unico punto di riferimento la religione. Ma la vera questione morale che attraversa epoche e paesaggi (mentali e filosofici) è la seguente: chi siamo se non abbiamo un nome? Non possiamo essere riconosciuti se non abbiamo identità: per questo Agata va in cerca di un santuario del respiro, per riportare in vita la sua bambina, e nell’unico momento di vita, darle un nome per esimerla dal limbo eterno.

Pur ricalcando l’idea del viaggio-avventura, quasi come un iniziazione a episodi con scenari che cambiano in base al superamento del girone precedente, la regola si rompe: non ci sono aiutanti per Agata, in questo paesaggio di anime salvifiche quanto violente. Si staglia così un racconto di figure femminili tutt’altro che rappacificanti, rompendo un immaginario solidale inesistente, e per questo la donna qui si riscatta ritrovando i tratti di contraddizione di ogni essere umano. Il paesaggio, quello di un Friuli Venezia Giulia boschivo, selvaggio e ostile, fa da ostacolo: reti da pesca, idee, montagne, intercapedini si mettono in mezzo al cammino di Agata che sembra un Frodo meno epico, ma sempre alla ricerca della liberazione del male dal mondo, il che significa anche liberarlo dai pregiudizi, dalle pre-definizioni, dalle pre-impostazioni visive.

La camera segue Agata, tentenna con lei, sprofonda e si addentra nell’oscurità: è finzione certo, ma a servizio del reale. Agata e lo spettatore diventano una cosa sola tra soggetto e camera. È in questo servizio alla verità del momento che Samani studia un percorso che vuole essere filologico (il dialetto friulano e veneto), ma soprattutto politico, come lei stessa ha dichiarato in un’intervista al settimanale FilmTv: l’uso del dialetto stretto (con tanto di indispensabili sottotitoli) è questione politica, una rivendicazione dopo l’italianizzazione forzata dell’epoca fascista. Per questo Piccolo corpo è soprattutto la realizzazione di un discorso sulla femminilità moderna. Agata non è solo donna, ma è tutte le donne, per questo ogni personaggio che incontra vuole rubarle qualcosa: il latte, i capelli, la prole, la forza, tutti chiedono un risarcimento sottraendo qualcosa a questo piccolo corpo, difeso/indifeso, già spacciato, nato morto o in attesa della sua morte, ma ancora alla ricerca di un’identità.

Piccolo Corpo poi, dimostra, come d’altronde sta facendo un certo cinema di genere, che il passaggio di testimone – lasciare il figlio ad un altro sconosciuto –, spesso non voluto, è affidato all’ambiguo, che si riscatta in una catarsi universale. Catarsi che qui spetta a Lince, l’aiutante/antagonista che è l’altra faccia del femminile: l’escamotage del suo travestimento ha un peso tutto sociale, perché in questo mondo per difendersi dagli sguardi, ma soprattutto dalle parole, il vestirsi da maschio diventa l’unico modo di sopravvivere. Per questo motivo Lince è l’unica che può concludere il gesto materno, ottenendo quella rivendicazione sociale della propria identità, proprio perché non universalmente riconosciuta come tale.

In un mondo dove tutto è rielaborazione, dove la finzione è a servizio del reale e in cui “il consumatore reale diventa consumatore di illusioni” di debordiano lascito, Piccolo Corpo si colloca in una dimensione tutta nuova dove la ricerca minuziosa, pedissequa della storia, la filologia e il racconto di un’Italia che bagna le proprie radici nei paesaggi e nel mito, e le storie tramandate che diventano leggende, non sono utili solo ai fini della narrazione, ma per affrontare il dilemma moderno del femminile. Samani non racconta il corpo, non lo attraversa, ma piuttosto lo utilizza per quello che è: forma e quindi involucro di storie, racconti, avvenimenti. Una questione di ricostruzione, un modo di immaginare l’elaborazione di un lutto, un atto di curiosità fondato sulla possibilità di ribaltare l’immaginario (erano solo gli uomini ad intraprendere il viaggio verso i santuari del respiro) e riflettere sulla contemporaneità. Quello che emerge è soprattutto il corpo del Novecento, quello che esce da una guerra e poi da una lotta di liberazione e che infine entra prepotentemente nella modernità, vivendola e forgiandola.