The Humans è un’opera che è tutto il contrario di ciò che dice di essere. Un ingannatore, un rompicapo. Sebbene plasmato da tecniche inequivocabilmente appartenenti al genere horror, questo film non ha alcunché di convenzionalmente horror. Il che non vuol dire che non faccia lo stesso orrore, solo, in senso lato. Proprio come i tubi della casa – apparentemente infestata, o qualcosa di simile – il film si apre, si attorciglia su se stesso e si chiude, portando avanti il concetto operante, a livello narrativo e visivo,  dell’otturazione. Mentre una sostanza sinistra inquina, deformandole, le tubazioni di un appartamento di New York, peraltro per nulla newyorkese – in linea con la natura auto-contraddittoria del film – i grovigli familiari che informano quello che in realtà sembra essere un dramma appunto familiare, seppur a tinte fosche, si infittiscono fino all’assurdo, al tragicomico, o proprio all’horror. L’atmosfera e i dettagli paranormali che formano e deformano il film si rivelano allora essere fittizi escamotage strutturali e allegorici, i quali permettono di scavalcare, se non surclassare, il cliché cinematografico della riunione familiare americana in occasione della festa del ringraziamento.

Questo film procede asintotico verso picchi di tensione che rimangono inesauditi, inesauribili, attraverso l’uso di una catarsi senza un culmine.  The Humans lavora su una struttura ellittica, che ci fa girare intorno a dei personaggi e dentro ad una casa vorticosamente, nell’attesa vana di qualche orrore che ci permetta finalmente di abbandonarci a un sussulto, a un meritato, genuino gemito di legittima paura. Così facendo, Stephen Karam, al debutto come autore cinematografico – ma in primo luogo teatrale, già nel 2015 – mette in scena un’opera dove non c’è rilascio, non c’è aria. È l’asfissia che governa i ritmi, in un film che si trasforma in un brutto sogno, uno di quelli a cui si fatica dare un senso al risveglio. Magari il significato nascosto di quel delirio onirico arriverà folgorante a metà giornata, quando ormai il ricordo già fumoso di quello stesso sogno sarà scivolato lontano, appassito.

Ecco allora perché è più che giusto parlare ancora adesso di The Humans, a più di un mese dal suo sbarco su MUBI. La sua digestione avviene lenta e su più livelli, proprio come l’appartamento del film, che per così dire, funziona da palco cinematografico per i suoi attori così spasmodicamente connotati e cristallizzati nei loro ruoli. Attraverso la messa in scena accattivante di un ghost-movie, la sceneggiatura si riferisce invece a spettri ben più infestanti, vale a dire fondamenta relazionali pericolanti o sindromi post traumatiche ignorate – ebbene sì, ancora una volta si fa riferimento al 9/11. Nel suo divenire, il ritmo di questo film si fa nervosamente sempre più inafferrabile, mentre rimane allo stesso tempo scomodamente intimo e claustrofobicamente distante grazie a un lavoro di macchina e di suono scultoreo, che gioca inversamente proporzionale per contrasti e contrari, per pieni e vuoti.

A pensarci bene, cosa c’è di più horror delle riunioni familiari per le festività? Come vasi di Pandora inavvertitamente scoperchiati, tavoli perfettamente agghindati diventano banchi, di prova, per attriti insondati e prossimità a lungo scampate. Ecco che allora i suoni e le immagini più inquietanti del film coincidono strategicamente con attimi di incresciosa pulsione verso tensioni incrociate nonché spaventosamente sotterranee.

D’altronde The Humans, pur restando comodo nel suo alveo di novità, non sfugge nemmeno a una certa scia stilistico-concettuale, ad ora, piuttosto piacente: quella dell’inverosimilmente grottesco e disturbante, dell’estremizzazione discorsiva sebbene veritiera, dei legami platealmente disfunzionali, dei luoghi non-luoghi che ospitano contemporanei caos esistenziali – chissà che adesso non ci venga in mente Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman.

Dunque allora, c’è qualcosa di più orrorifico…degli umani?