Esiste, per chi sa coglierlo, un legame che collega indissolubilmente ogni persona esistente a questo mondo con la persona che lo ha generato: la propria madre. Un rapporto che cambia con il cambiare delle stagioni: una figura che ci appare onnipotente e misteriosa con l’arrivo della primavera, che rinneghiamo durante la nostra estate, che al nostro ritorno, durante l’autunno, si mostra cambiata, non più monumentale ma ricurva nel suo essere già inverno: collerica forse, bisognosa di tutto e timorosa, lei, della nostra onnipotenza.

Lo mostra bene Alice Diop con il suo Saint Omer, protagonista a Venezia con il suo debutto nel cinema della finzione dopo ottimi documentari. Una storia magnetica, quella della scrittrice Rama che assiste a un processo per infanticidio, una storia che nasconde tra le pieghe dello specifico una visione archetipica. La madre che, sovrastata dalla nascita della propria figlia, la lascia morire in mare in preda a un mai chiarito malessere, storia vera della Francia del 2015 il cui processo (assistito nella realtà dalla Diop) aveva fermato i giornali della nazione, impegnati così come la corte a cercare di studiare ogni parola pronunciata nelle varie udienze, incapaci di risolvere forse il mistero principale: il perché.

Qui, la regista pone lo spettatore sui banchi dell’aula, permettendogli di guardare una sola cosa per volta. Non c’è controcampo ma piani fissi, sostenuti da un fuoricampo fondamentale nel restituirci solo le parole di avvocati, giudici e testimoni, mai coinvolti in una doppia visione classica che altererebbe la fruizione del processo. Durante questo, la scrittrice Rama ripercorre il proprio rapporto con sua madre, fondamentale per accogliere la vita che scopre avere dentro di sé. In questo, Saint Omer ci pone di fronte alla banalità degli eventi straordinari, sempre sotto la lente di ingrandimento per la loro capacità di raccontare, altro non fanno che riportarci ai sentieri già battuti, alle problematiche non risolte delle nostre esistenze.

Un processo non può dare una risposta, nonostante la cerchino sia la corte, sia la stessa imputata, perché la risposta sta nell’inspiegabile, nel mistico, nella stregoneria. Non è un caso, forse, che la maternità della colpevole interrompa (anche stavolta colpevolmente) una tesi su Wittgenstein, il genio che ha provato a spiegare l’inspiegabile del linguaggio e che poi ha ammonito tutti sul tentativo di farlo – nel suo Tractatus – salvo poi riprovarci egli stesso: “di tutto ciò di cui si può parlare, si può parlare chiaramente, di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.

Ma in questa sfida a dare una forma univoca a ogni pensiero, a ogni storia, a ogni vita, si rimane spesso a metà del guado, indecisi se completare il cammino o tornare verso il principio. In questo senso siamo tutti un po’ gli imputati di un processo e tutti un po’ Rama, con l’unico desiderio di stringere la mano della propria madre.