Io sarò la nube e tu la luna. Ti coprirò con
entrambe le mani, e il nostro tetto sarà il cielo.

Rabindranath Tagore

Vicino, intimo, inseparabile. Già dal titolo il secondo lungometraggio del regista belga Lukas Dhont inquadra un’amicizia preadolescenziale che non si limita ai momenti di gioco. In Close – presentato in anteprima al 75° Festival di Cannes dove il film ha ricevuto il Grand Prix – Léo e Rémi sono due bambini tredicenni legati da un rapporto intimo e forse all’ingresso in una realtà identitaria non ancora del tutto compresa. La regia si concentra sui loro gesti, contatti, sguardi, sospiri per immergere chi guarda nella quotidianità dei loro stati d’animo.

Entrambi i bambini passano ore a casa delle rispettive famiglie e intanto fantasticano sul loro futuro, rigorosamente assieme – come quando Léo, osservando Rémi suonare l’oboe, gli promette che quando cresceranno diventerà il suo manager. L’inizio del film, tuttavia, sembra anticipare la cesura che avverrà nelle loro vite: i due giocano a nascondino in una tana boschiva, mentre uno dei ragazzi intima all’altro di rimanere in silenzio e nascosto, poiché rischia di farsi sentire. Sarà proprio nelle prime conversazioni con i compagni di classe che i protagonisti, in particolare Léo, si troveranno a mettere in discussione la loro vicinanza, fino ad ora vissuta con estrema spensieratezza.

Sulla scia del primo lungometraggio Girl, Dhont riporta così in scena il multiforme universo dell’identità sessuale, ponendo questa volta una lente di ingrandimento su un’amicizia che rimane solo per un momento nella leggerezza e nell’innocenza e presto si scopre calata, nella sua possibile evoluzione sotto lo sguardo altrui, in un microcosmo di soli stereotipi. Il modo in cui Léo e Rémi si relazionano tra loro, con gesti come il chinare la testa sulla spalla dell’altro, vengono visti, in primis dal mondo femminile, come manifestazioni di comportamenti che “oltrepassano” i termini di un rapporto codificato.

La visione dei coetanei porta Léo ad allontanarsi gradualmente da Rémi, prima fuggendo alcune azioni comuni e abitudini consolidate, poi arrivando a rifiutare che egli lo osservi mentre gioca ad hockey. A modo suo si allontana anche l’amico, il quale non riesce a comprendere l’improvviso comportamento, e l’ingiusta distanza che si sta creando fra i due. Fino a quando un evento del tutto inatteso getta violentemente Léo in un coming of age in cui il tempo scandito dalle corse nei campi di fiori arcobaleno lascia posto al trauma della disillusione: ogni azione quotidiana sembra non avere più senso, e ogni pensiero è destinato al ricordo di un’amicizia divenuta assenza.

Rabindranath Tagore scriveva che il senso dell’amicizia si consuma durante la notte, quando il resto del mondo dorme e nemmeno gli uccelli cantano. L’amicizia non è qualcosa che si può insegnare, addomesticare: quando si fa il proprio ingresso nel mondo, ci si trova costretti a declinare questo sentimento dentro schemi e percezioni tesi a codificare le vite e i ruoli degli altri. Proprio queste circostanze sembrano al centro del lavoro di Dhont, in cui le manifestazioni d’affetto e tenerezza tra due quasi adolescenti arrivano ad essere stigmatizzate. Forse, riprendendo Tagore, la sparizione di Rémi fra le stelle spente del buio allude ad un luogo in cui i sentimenti più puri si trovano sospesi in aria come aquiloni senza tragitto. A volte è necessario chiudere gli occhi verso il cielo per essere più vicini alla terra.