Il cinema di Skolimowski ci ha già raccontato in vari modi degli ultimi, categoria che prima di essere cinematografica è più che mai del reale; e chi è l’irrimediabilmente ultimo nel reale se non l’animale? Più o meno consapevolmente questo film cerca di raccontare, attraverso il peregrinare dell’asino Eo, lo sbilanciato rapporto che esiste tra individui umani e animali, in cui il primo gode di una certa impunità che lo autorizza a servirsi del corpo animale, mentre il secondo cade spesso in una invisibilizazzione dei suoi desideri, delle sue paure e delle sue condizioni; talvolta feticcio, altre volte semplicemente oggetto.

Già dalla prima scena è chiaro il rimando al capolavoro di Bresson Au hasard Balthazar, di cui EO è un omaggio, più che un remake. Ma dal suo predecessore si stacca per fare un passo ulteriore: abbandonare ancora di più la presenza umana e immergersi in quella animale. 

Eo ci viene presentato durante uno spettacolo circense di cui è protagonista insieme a Kasandra, ragazza che lo dirige e che in qualche modo ha cura di lui. Ma presto l’asino abbandona il circo per un avviso di bancarotta, proprio durante una manifestazione di animalisti che gridano il loro dissenso per la crudeltà degli spettacoli con gli animali. Eo è uno spettatore passivo di quello che capita, e mentre noi identifichiamo con chiarezza i diversi approcci umani che agiscono sulla scena, lui interpreta il tutto esclusivamente come un passaggio di luogo, senza diritto di scelta, mentre viene portato dal circo verso una fattoria didattica, un posto solo in apparenza più gentile. E da qui scapperà per iniziare un lungo peregrinare verso l’inconsapevole scoperta di un mondo ancora più disorientante.

Finalmente in questo film chi è sempre stato oggetto torna a essere soggetto, anche se in uno stato di confusione. Sì perché non c’è spazio che Eo attraversi che in qualche modo non sia stato risignificato dall’umano, nel bene e nel male, dal bosco reso arena di caccia, all’imponente pala eolica, dalle fabbriche lungo l’autostrada agli spazi verdi adibiti a campi da calcio. La presenza dell’umano è ovunque, satura ogni cosa, ed è carica di ambiguità, per cui spesso ci si ritrova a chiedersi se il nuovo spazio che sta varcando Eo sarà un luogo di cura o un luogo di morte.

Skolimowski porta poco alla volta lo spettatore a mettersi in discussione, in molti passaggi prova a farci addirittura vedere il mondo attraverso gli occhi di Eo, una immedesimazione riuscita in cui siamo scomodi, perché il linguaggio umano è dappertutto, ma fa da sfondo. Ne sono un esempio i discorsi tra i vari personaggi umani che non hanno mai una funzione narrativa, per cui vederli agire senza sentire direttamente le loro comunicazioni non cambierebbe la portata del film, che trascende lo sviluppo filmico a cui siamo abituati per portarci a sentirci più vicini al corpo estraneo dell’animale, piuttosto che al linguaggio umano.

Insomma, l’umanità stessa è il conflitto del film, non intesa come agglomerato di singoli individui, ma come entità appartenente a una realtà di dominio. 

Il cinema negli ultimi anni sta riuscendo nell’impresa di dare giustizia all’esistenza animale, interrompendo quella monotona tradizione narrativa del non saperlo dire se non in forme antropocentriche o descrittive, e cercando di disvelare il rapporto difettoso tra umano e animale, espressione di un sistema specista.  Così come Space Dogs di Elsa Kremser e Levin Peter o Gunda di Viktor Kossakovsky, anche EO si inserisce in questa nuova corrente, portando avanti, attraverso la resistenza delle immagini, il rifiuto di una gerarchizzazione tra le specie.  

Chiaramente nessuno di questi film è in grado di restituire davvero la complessità del mondo interiore dell’animale: impresa impossibile. Ma ciò che è interessante è la volontà di avvicinarsi quanto basta per metterci in discussione. La sola presenza di Eo in molte scene del film ci fa compiere uno scarto da una lettura semplice – un animale che passa di padrone in padrone – a una più profonda: quella di un essere vivente che cerca di trovare un posto nel mondo per cui l’ “appartenere a” non esiste se non in una dimensione di sfruttamento, di cui Eo è simbolo e testimone nel suo girovagare. Ci sono i cavalli da corsa, i maiali sui camion, i pesci tropicali nell’acquario, i cani procioni allevati per la loro pelliccia e i bovini destinati al macello. Tutti invisibili qui raccontati non come protagonisti di un film di finzione, ma come esistenti che abitano il nostro mondo anche fuori dalla sala cinematografica.