Negli ultimi anni la Norvegia, in particolare sotto il governo di destra guidato dal Partito del Progresso, si è distinta per l’impegno costante con cui ha respinto – e sollecitato a respingere – i migranti lungo le frontiere non accoglienti dell’Unione Europea. Come in Italia con i Cpr, si sono eretti campi militari per isolare gli indesiderati d’Europa (per prendere in prestito il titolo di un film di Fabrizio Ferraro); i controlli alle frontiere si sono moltiplicati, le concessioni dell’asilo e dei ricongiungimenti familiari sono drasticamente diminuite e i rimpatri forzati aumentati. Il cambio di governo nel settembre 2021 non sembra aver giovato alle politiche migratorie del paese: proprio qualche mese fa il governo norvegese rifiutava la richiesta italiana di accogliere i 234 migranti bloccati sulla Ocean Viking (nave norvegese), deresponsabilizzandosi garbatamente ai sensi del diritto internazionale.

Questo scenario (qui chiaramente semplificato) costituisce il fuoricampo di A Human Position di Anders Emblem, lo scorso anno nella sezione Bright Future del Festival di Rotterdam. Asta collabora con un giornale locale, scrive di fatti secondari, alimenta la cronaca e il rumore di un’informazione inutile. Questa monotonia viene interrotta dalla notizia della deportazione forzata di Aslan, operaio senza permesso di lavoro in una stazione per l’imballaggio di baccalà nella cittadina portuale di Alesund, che Emblem inquadra nella sua simmetria di discese e salite, nei palazzi ripuliti e luccicanti, nella luminosità della notte. Aslan è soltanto un nome senza volto, di cui Asta ricostruisce – ma sarebbe meglio dire, abbozza – la storia di licenziamento e rimpatrio, in un percorso di crescita personale ed emotiva che si ripercuote sulla sua relazione amorosa con la compagna, riparatrice di sedie moderniste e pianista amatoriale.

Se A Human Position fosse stato un film riuscito si sarebbe avvertita la contraddizione che spacca nel profondo le socialdemocrazie scandinave: da una parte una società ricca, un welfare stabile, dall’altra un sistema intransigente, fintamente progressista, che non esita un istante a cacciare dal proprio territorio persone improduttive. Ma Emblem preferisce soffermare la sua attenzione sulle micro-azioni e i micro-cambiamenti quotidiani di Asta, attraverso una fotografia simmetrica, colorata soffusamente a pastello, contemplativa e compiacente della realtà che filma.

Perché nonostante l’importanza e l’attualità del tema, il problema di A Human Position sta tutto nel posizionamento dello sguardo che si sceglie di adottare: dove si colloca il dolore, da chi e come viene esperito, come viene mostrato e raccontato.

Si è davanti, del resto, ad un errore del progressismo occidentale: soggettivizzare a qualunque costo una questione politica, obliterarne la dimensione storica e collettiva. La posizione politica scade nella posizione umana (e umanitarista: implicata dunque in una prospettiva dall’alto al basso). La vicenda di Aslan si fa elemento di guarigione di una ferita che si rimargina su una pelle bianca e benestante. Il fuoricampo si riduce a sussurro, a pretesto. La soluzione sembra confortante e vicina: basta sedersi su una sedia riparata e comoda, ascoltare con struggimento le note di una melodia pop, per un cambiamento senza conflitti quanto il passo felpato e dormiente del gatto della coppia di protagoniste. Come in Triangle of Sadness di Ruben Östlund (con ovviamente altre portate e conseguenze) il mostro assomiglia spaventosamente al suo ambizioso assassino.