Esperienza personale. Poco dopo aver visto Un monde, opera prima della belga Laura Wandel presentata a Cannes 2021 nella sezione Un Certain Regard, mi sono ritrovato nel vagone di un treno regionale con una mamma e due figlie piccole, di sei o sete anni. Ancora memore delle dinamiche del film, mi sono chiesto come possa un genitore fare fronte, da solo, ad una coppia di figli o figlie che condividono un linguaggio e un sistema di codici talvolta incomprensibili. Cos’è che li fa ridere nel dire ciao ad uno sconosciuto come me, guardandomi e nascondendosi tra i sedili?

Ci sono delle battaglie invisibili che resistono solo nello spazio di un diaframma aperto, si perdono facilmente nel fuori fuoco e restano attaccate unicamente a chi è loro più vicino. È il caso di Nora, una bambina alle prese con i suoi primi difficili giorni di scuola elementare, di cui Un monde racconta la difficile storia di formazione, intrisa di bullismo. Attraverso un’immagine sempre ad altezza protagonista, il film segue le difficili dinamiche di potere e di giudizio che si instaurano tra i bambini, osservando come e su cosa si costruiscano le loro relazioni, tentando di non forzare la narrazione con costruzioni prevedibili, e affidandosi totalmente alla risposta empatica dello spettatore nel partecipare a questo racconto del reale.

Apre il film una lunga inquadratura vicinissima al volto di Nora in lacrime, incapace di lasciare andare il padre al cancello di scuola, in una scena che permette agli altri personaggi di entrare nella narrazione solo invadendo lo spazio del primo piano della bambina. Un’immagine che chiude i suoi confini ed evoca tutto ciò che è al di fuori di essa come sfocato, lontano, ignoto. Non esiste altro se non la percezione esasperata del mondo esterno che un bambino può avere al suo primo contatto con esso. L’oggettività razionale degli adulti scompare, e resta l’immersione più totale nel sistema di codici, linguaggi e percezioni che Nora apprende dalla scuola e, soprattutto, dal parco giochi durante la ricreazione.

La forma filmica di Wandel gioca con un sonoro da battaglia, in cui le urla e i rumori dei bambini nel playground che arrivano dal fuori campo costruiscono una tensione insostenibile, e con una macchina da presa che non si allontana mai dal volto di Nora, che non permette di guardare la scena alla “giusta” distanza. Lo spettatore vede il mondo unicamente attraverso la bambina, e il risultato è un’empatia totalizzante, quasi forzata con la protagonista, un viaggio emotivo tutt’altro che semplice, che conquista la sua fiducia proponendo situazioni così vere che fanno riemergere esperienze che molto spesso possiamo aver vissuto da bambini.

The Whale ha aperto un dibattito, anche sul nostro magazine, sul pietismo e sulla sua potenziale invasività dell’immagine e della narrazione. Se l’estremizzazione empatica di Aronofsky è evidente, possa piacere o meno, collocandosi in una struttura narrativa e nutrendosi di una recitazione sopra le righe, in cui l’immagine chiede allo spettatore di essere vista come tale, nel film di Laura Wandel c’è, invece, una più sottile appropriazione del mezzo cinematografico. Combinando un linguaggio figlio della tradizione dei Dardenne, a cui l’autrice è assimilabile non solo per origine geografica ma per un’evidente affezione al reale e alla sua complessità, abbracciando una teoria dell’immagine che tenta di catturare in tutti i modi lo spettatore, il film pone tuttavia qualche domanda sul rischio che si corre di indirizzarlo.

Costruire un’immagine così empatica, con così tanta partecipazione emotiva, ma dall’altro lato con una narrazione così radicata in dinamiche fortemente realiste, porta con sé la possibilità di offuscare la percezione che il film sia una prospettiva filtrata dal punto di vista dell’autrice. Mi rifaccio agli aneddoti di Wandel stessa quando parla del suo lavoro con i piccoli attori. Proprio nei primi giorni di prove, a tutti i bambini sono state consegnate delle marionette, chiamate con i nomi dei loro personaggi nel film, per rimarcare la distanza che c’era tra loro, realtà, e le marionette, un’immagine. Quella distanza, per lo spettatore, sembra invece cancellata. Il profondo lavoro sull’aderenza al reale che la regista compie, dalla recitazione alla costruzione narrativa, unito ad un linguaggio visivo che ci impedisce di scegliere cosa guardare, non ci fa vedere “marionette”, ma bambini in carne ed ossa di cui non dubiteremmo mai della veridicità delle azioni e dei sentimenti. L’immagine viene così radicalmente sovrapposta alla verità. La fiducia che riponiamo nell’autrice e nel suo racconto così verosimile è sottilmente parziale. Un monde è un film di finzione che vuole negare la finzione stessa. Sembra che per l’autrice ciò che sta raccontando sia vero, e ciò facendo non si astrae, non guarda da fuori, e afferma “è così”, senza ammettere la possibilità che non lo sia.

Ma se si riesce a schivare il pericolo di essere talmente assorti nella visione da non riuscire a scorgere qualsiasi altra prospettiva, e a riflettere sull’immagine che viene proposta, si può trovare lo sguardo di una regista ugualmente animata da grande sincerità, che descrive con umanità la difficoltà di muovere i primi passi nel mondo, senza cancellarne complicazioni, dubbi, narrazioni irrisolte. Al netto del suo dispositivo convergente, Un monde resta un film tematicamente aperto, che non vuole dare risposte se non l’urgente necessità di reinserire la gentilezza nel nostro sistema di valori, come dimostra l’abbraccio tra Nora e il fratello nell’ultima inquadratura. Essere consapevoli dei meccanismi affabulatori di un mezzo empatico come l’immagine cinematografica resta tuttavia una prerogativa indispensabile per comunicare con lo spettatore e la sua percezione ad armi pari.