In un video ormai piuttosto datato è possibile vedere Christopher Nolan alle prese con una spiegazione di Memento. A un certo punto, al regista inglese (all’epoca appena trentenne) viene chiesto di spiegare la complessa struttura del film, magari disegnandola alla lavagna per maggiore chiarezza. Con un po’ di titubanza Nolan accetta, ma subito precisa: “Può essere confusionaria da disegnare, perché non penso pittorialmente”. Dopo di che eccolo abbozzare un vero e proprio diagramma, nella forma di uno strano tornante, o meglio, di un nastro di Möbius composto da due linee temporali incastrate in un movimento a circuito chiuso, leggibile come un palindromo. Negli anni, altri disegni sono trapelati dalle sceneggiature dei suoi film: il più famoso è il diagramma dei sogni di Inception, in cui il film è raffigurato come un edificio a più piani. Come si spiegano questi modelli occasionali, così lontani dalle note di regia, ma anche da un classico storyboard? È lo stesso Nolan a chiarirlo: “L’unico lavoro che mi abbia interessato oltre al filmmaking è l’architettura. Sono incuriosito dalle analogie tra il modo in cui facciamo esperienza di uno spazio tridimensionale creato da un architetto e il modo in cui il pubblico vive una narrazione cinematica che costruisce una realtà tridimensionale partendo da un medium bidimensionale. Penso che nell’architettura ci sia una componente narrativa particolarmente affascinante”. Simili a canovacci architettonici, piani bidimensionali pensati per costruire oggetti tridimensionali, i diagrammi di Nolan mostrano che per questo regista fare cinema significa portare a una dimensione fisica, si direbbe abitativa, alcuni stati mentali alterati: la memoria a breve termine di Memento, la dissociazione psicofisica di The Prestige, la scissione psichica del personaggio di Batman, i sogni dentro ai sogni di Inception, le alterazioni temporali di Interstellar e Tenet, lo scollamento esperienziale di Dunkirk.

Non è difficile riconoscere in queste alterazioni cognitive le forme del nostro sapere contemporaneo, quello della post-verità, del relativismo soggettivistico, dello sgretolato e irrecuperabile stato di realtà. Niente di eclatante, si dirà, sono molti i registi della generazione di Nolan (David Fincher e Shyamalan, su tutti) ad aver impegnato il proprio cinema per cercare di mettere in scena il traumatico disorientamento dello sguardo presente, raccontando la perdita di una relazione salda con il mondo, lo sfaldarsi di ogni possibile comprensione ed elaborazione. C’è però un distinguo da fare: nessuno come Nolan (almeno nel mainstream americano) ha intuito il ruolo della scienza in questo cambio di paradigma conoscitivo. Nessuno come lui, per esempio, ha investito sulla relazione culturale tra il principio di indeterminazione di Heisenberg e la condizione dell’audiovisivo contemporaneo, e cioè tra un’epistemologia anti-deterministica secondo cui “non è più possibile conoscere il presente” e uno stato dell’arte ormai in completa ratifica di questa condizione di impasse conoscitiva. Nessuno di certo ha pensato di impostare il plesso dell’intrattenimento industriale su questa relazione, applicando di film in film la tridimensionalità opaca e disorientante dell’indeterminazione cognitiva alla bidimensionalità piana dell’immaginario del vecchio secolo – i generi della cultura cinematografica hollywoodiana, come il noir, il cinecomic, il film in costume, la fantascienza, l’heist movie, il film di guerra, il film di spionaggio – per rendere esperibile, dicevamo abitabile, nel contesto di massa, lo stato del non sapere contemporaneo.

Era solo questione di tempo prima che il suo cinema incontrasse di petto la propria matrice storica, confrontandosi con la fisica quantistica non più solo come ispirazione ma come riferimento formale e contenutistico. Oppenheimer è il punto di arrivo di questo progetto ormai più che ventennale, la finalizzazione del proprio discorso sul cinema come struttura pensata per rendere oggettivamente visibili ed esperibili le nuove condizioni della conoscenza. Lo è non tanto perché racconta la storia del fisico che ha trasportato il mondo nell’epoca dell’incertezza quantistica e atomica, ma perché lo fa rappresentandola proprio secondo quel principio di indeterminazione da cui è iniziato tutto. Per mettere in scena la vicenda del prometeo americano Nolan prende infatti la linearità diacronica della scrittura biografica di Kai Bird e Martin Sherwin e la porta a una profondità sincronica; fa quindi collassare i due tempi della vita dello scienziato – l’ascesa per il percorso per la costruzione della bomba atomica e la caduta nel processo per il suo presunto comunismo – e apre ogni suo singolo episodio storico (la sua travagliata crescita accademica, la sua gloria scientifica come sintetizzatore di idee rivoluzionarie, la costruzione della bomba, la sua condanna a porte chiuse) secondo due prospettive: quella dello stesso Oppenheimer e quella della sua nemesi Lewis Strauss, il responsabile per la sicurezza dell’energia atomica interessato a ostracizzare il fisico dalla vita politica. Punti di vista non coincidenti, ma assimilati in un unico campo visivo (tra le immagini capitola un Picasso del cubismo sintetico), i loro sguardi danno forma al film intrecciandosi in un pulviscolo di indeterminatezza e ambiguità che disarticola i rapporti di causa/effetto della Storia, portando la narrazione a un grado di illeggibilità tanto lontano dalla tradizionale meccanicità del cinema (medium saturo di meccanismi logici lineari) quanto vicino allo stato elettrico delle nuove logiche mediali e al comportamento distratto dei nuovi spettatori – i film di Nolan pensano al cinema come una struttura di contenimento e ri-mediazione per i nuovi linguaggi, basta pensare al finale di Tenet, in cui gli esperimenti dei Lumière rivivono attraverso dinamiche espressive videoludiche.

La narrazione è di genere processuale (tutto si articola intorno all’inchiesta contro Oppenheimer) ma il processo, a differenza delle convenzioni, non è più una macchina di senso tesa alla costruzione di una verità, anzi, è spettacolo massimo della più contorta contraddizione, in cui l’opacità diventa una legge d’espressione, niente appare certo, ogni dato visibile e storico scorre in avanti e poi all’indietro, si ripete, si riformula, cambia connotato, colore e posizione. Nolan trasforma le camere della verità storica in abissi del non senso, alterna altissima definizione sensoriale (con la fotografia di Von Hoytema mai così sintetico nella raffigurazione delle strutture plastiche) e altissima confusione cognitiva (con il montaggio di Lame usato invece analiticamente per moltiplicare i punti del visibile) per portare l’immagine a un paradossale stato di indistinguibile chiarezza. Regista ossessionato dalla correlazione audiovisuale come soluzione immersiva (al punto da costruire i film secondo organigrammi musicali, come la scala di Shepard per Dunkirk), separa poi a sorpresa il suono da questa immagine, riproducendo così la fine delle logiche causali del vecchio mondo sul piano audiovisivo. Come nel “prestigio” del film. Che non corrisponde alla scena della bomba – punto di massima autoriflessività sul virtuoso rapporto di questo cinema tra struttura industriale e produzione di un effetto visivo (per realizzare l’immagine che sogna, il fisico, proprio come un regista, si serve dell’economico genio militare, costruisce un set, coordina una squadra di lavoro, e poi si pone a fianco a una cinepresa che registri l’esplosione) – ma a quella, decisamente meno appariscente e rumorosa, del dialogo tra Oppenheimer ed Einstein a Princeton.

È questa scena, mostrata come un numero di magia (prima promessa come qualcosa di ordinario, poi allontanata in una svolta straordinaria e infine fatta riapparire), a sintetizzare tutto il film.  Se dovessimo infatti pensare a un diagramma per spiegare la struttura di Oppenheimer, il migliore possibile sarebbe, ancora, quello del principio d’indeterminazione di Heisenberg, secondo cui un punto nello spazio-tempo si modifica per il solo fatto di essere guardato. Avviene questo nella conversazione tra i due fisici davanti a un placido laghetto, guardati da un lontano e sospettoso Strauss. Cosa si dicono? E perché Einstein è così turbato mentre si allontana? L’incompleto e soggettivo punto di vista del politico sulla scena genererà una reazione a catena inarrestabile. Nolan nega a Strauss e allo spettatore la possibilità di sentire il dialogo – restituisce questa possibilità solo alla fine del film – non per un trucco fine a se stesso, ma per ragionare un’ultima volta sulla cecità dello sguardo contemporaneo, che, quando vede, modifica le condizioni della visione e quindi rende impossibile qualsiasi comprensione. Nell’epoca dell’indeterminazione vedere significa essere ciechi, non si sfugge da questo trauma prospettico. Il presente non è conoscibile e soprattutto non lo è attraverso lo sguardo; piuttosto questo stesso sguardo è chiuso in un tormento, che non ha le sembianze dell’eterna fame dell’aquila prometeica ma quelle di un viaggio dentro a un tempo imploso e senza bandolo. Oppenheimer viaggia in questo tempo per tutto il film come il Protagonista di Tenet: mentre quest’ultimo però alla fine diventa l’ideale ultimo spettatore dei nuovi media, quello in grado di manipolare le informazioni pensando alle immagini in modo non lineare, passandosi la conoscenza dal futuro, lo scienziato invece si trasforma nel primo spettatore dell’indeterminazione, costretto alla sofferenza di uno sguardo che prevede ma non riesce ad agire. E non è un caso allora, che il film si apra e si chiuda proprio sullo sguardo di questo Adamo del nuovo mondo, responsabile di avere colto nella mano il sole, scambiandolo per una mela.